La vecchiaia: un grave problema o un segno di civiltà?

di Barbara Fabro

 


 



L’immagine culturale
dell’anziano
  

L’immagine esterna e l’immagine interna secondo Simone de Beauvoir 

Da cellula economica a risorsa per la comunità 

Invecchiare: il percorso dell’incertezza 

La ricerca del benessere quale tensione alla distanza minima 

Stereotipi e pregiudizi

L’immagine della vecchiaia: un esplorazione senza confini

   

Uno dei motivi che mi hanno spinto a trattare questo argomento, al fine di riflettere sulla condizione anziana in generale, è il fatto che la mia esperienza personale, sul lavoro e nel tempo libero, mi mette in contatto con una certa fascia di anziani, quelli in difficoltà, non autosufficienti, malati, che si avvicinano più o meno velocemente alla morte. Mi rendo conto che in me è sottile la tentazione di estendere a tutti gli anziani ciò che soltanto una parte di essi mi trasmette. In questo senso io dovrei essere la prima a confermare l’opinione comune che la vecchiaia in fondo è una triste condizione, anzi il periodo più brutto e inutile della vita, in cui i progetti non hanno possibilità di realizzazione, i sogni non hanno un senso e la speranza è solo un’illusione. Per superare questa tentazione, desidero con il presente lavoro anzitutto cercare delle risposte per me. E vorrei farlo valorizzando gli aspetti positivi, i valori esistenziali che gli anziani mi trasmettono in quanto esperti di vita. È risaputo che quando della vita si intravede la fine, il valore percepito del tempo che rimane aumenta esponenzialmente: è come se lo scorrere del tempo cambiasse ritmo, in modo che anche le piccole cose acquistano importanza.
Accanto a questo, un secondo stimolo al presente lavoro di esplorazione e riflessione mi è venuto dal desiderio, maturato in questi anni di studio, di approfondire il rapporto che intercorre tra l’educazione degli adulti e quella degli anziani, e tra quest’ultima e la didattica. L’educazione dell’adulto e dell’anziano è una scoperta piuttosto recente, tanto è vero che non disponiamo ancora di teorie psicologiche che, in modo convincente, siano riuscite a spiegare i processi di maturazione e di crescita autonomi, indipendenti dagli stadi precedenti della vita, quali la fanciullezza, la giovinezza ecc. Quindi si vanno ora affermando teorie dello sviluppo nuove e più adeguate alla riflessione attuale, e tutto ciò si traduce in una teoria della pratica educativa con gli anziani, o per lo meno in indicazioni di massima, che si possono utilizzare nella relazione educativa che, seppur sempre nuova e inedita, come sempre originali e uniche sono le persone che si avvicinano al professionista, presenta dei tratti comuni, delle problematiche a cui con una pratica riflessiva si tenta di dare una risposta soddisfacente.
Il compito della didattica dovrebbe essere quello di fare da cerniera tra teoria e prassi, alimentandosi di entrambe, permettendo ad entrambe, quasi in un gioco di vasi comunicanti, di arricchirsi, senza trattenere nulla per sé. La riflessione ha senso se indirizza l’azione; l’azione a sua volta permette e stimola il progresso della riflessione; all’interno di questo gioco si situa la didattica.
Partendo da queste premesse presento una tesi in didattica che si compone di riflessioni teoriche, frutto di lettura critica delle fonti bibliografiche (non molte, in verità!), ma che si sviluppano sulla base dell’esperienza, del mio contatto diretto con gli anziani. Tutto ciò che viene detto non ha senso, secondo me, se non in vista dell’evoluzione di un rapporto professionale, ma non solo; allo stesso modo tutto ciò che viene fatto deve continuare a suscitare riflessioni personali, che ci permettano di alzare lo sguardo, di allargare gli orizzonti e di comprendere il nostro agire e il nostro pensare in una visione di largo respiro. Questo è necessario soprattutto in riferimento alla vecchiaia, perché forti sono le influenze di un sentire negativo, di uno stereotipo perdente che determina un atteggiamento arrendevole, pavido e pessimistico negli operatori professionali, negli anziani stessi e nella società nel suo complesso.
Oggi la vecchiaia con tutta la sua complessità ha una maggiore visibilità sociale. A questo proposito Sergio Tramma, autore che da anni si occupa di anziani nell’ambito di educazione degli adulti, fa notare come la vecchiaia sia uscita dalla clandestinità, dopo un lungo periodo in cui è stata oggetto di studio e riflessione soltanto da parte degli esperti . Il motivo principale va ricercato nella tendenza all’invecchiamento della popolazione che i dati statistici rilevano da ormai mezzo secolo, invecchiamento tale da far affermare con sicurezza alla Molinatto che “le società occidentali a venire saranno mondi abitati da vecchi” . Nonostante la vecchiaia stessa sia ritenuta un indicatore della qualità della vita di un’intera società , alcuni autori trattano il fenomeno dell’aumento degli anziani come un problema per il quale cercare soluzioni. Ne parla per esempio Danilo Giori che titola il paragrafo sull’argomento “La dimensione quantitativa del problema in Italia” . A mio avviso il problema principale non è tanto dovuto all’aumento del numero degli anziani nella nostra società, quanto alla mancata elaborazione culturale di questo fenomeno; gli anziani in fondo spaventano perché ne conserviamo un’immagine negativa, perdente, che non è fedele alla realtà. Ecco emergere allora la necessità di una riflessione, che cercherò di abbozzare nei primi capitoli di questo lavoro; ma ancora più che una riflessione emerge la necessità di una pratica con gli anziani, una pratica educativa che conduca alla naturalezza del rapporto, che permetta di instaurare relazioni in cui l’arricchimento umano e la soddisfazione siano reciproche e condivise.
Concorda con questa impostazione Mary Marshall, la quale rivolgendosi agli assistenti sociali afferma che l’aumento del numero degli anziani più che un problema “può fornire l’occasione di lavorare con un gruppo di adulti eccezionalmente interessante: quelli che si sono adattati a un enorme cambiamento, che hanno fatto i conti con il totale sconvolgimento delle loro esistenze. Queste persone possono aver bisogno unicamente di un piccolo aiuto per continuare un’esistenza che, per la maggior parte di loro, è serena e che sperano continui a esserlo” . Le riflessioni dell’autrice lasciano intravedere l’apertura di un orizzonte ampio e variegato nel rapporto con le persone anziane. Quindi sì alla valorizzazione del lavoro sociale con gli anziani, sì alla promozione delle pratiche educative, ma il problema è: dove inserire queste pratiche educative? qual è il contesto, se ne esiste uno specifico, dove andare a cercare gli interventi educativi con persone anziane? Questa domanda è d’obbligo se è vero, come afferma Duccio Demetrio, che “le condizioni dell’educazione non sono né alla portata di tutti, né costituiscono un’esperienza ricorrente nella quale ci imbattiamo per il fatto stesso che viviamo. Educazione e vita non coincidono meccanicamente, nel senso che l’una è intrinseca all’altra e viceversa” . Ciò non significa che è educativo solo ciò che vuole esserlo, ovvero che un progetto educativo raggiunge sempre tali obiettivi, ma significa che gli effetti educativi di un’azione non sono scontati e non esistono se non vengono esplicitati da una riflessione dei protagonisti, soprattutto nel caso degli adulti e degli anziani.
Nel terzo capitolo presento schematicamente gli interventi rivolti agli anziani: interventi delle politiche sociali e dei servizi. In tale contesto viene circoscritta un’area caratterizzata da azioni con obiettivo primario di tipo ricreativo e socio-culturale. Questa operazione convenzionale, nell’intenzione, vorrebbe individuare un contesto o area-contenitore, in cui collocare le azioni con finalità educative e formative, distinguendole nettamente da interventi e servizi di carattere sanitario e assistenziale. In realtà operare questa distinzione non è così facile per diversi motivi. Anzitutto è possibile a mio avviso soltanto in teoria; infatti anche in attività svolte a scopo sanitario si esplicitano obiettivi educativi, così come in attività educative può coesistere l’aspetto sanitario, di prevenzione per esempio. Parliamo quindi di un’area educativo-ricreativa, in quanto contenitore di azioni educative, ricreative o culturali che siano, non tanto di servizi strutturati appositamente. In questo contesto, anche volendomi fermare alla pura teoria, ho incontrato difficoltà per la mancanza di un impianto organico di riflessione attorno a questi temi e quindi di un quadro teorico preciso e condiviso, in grado di fornire i criteri di selezione. Tutto ciò rende quest’area un territorio dai confini sfumati e definito piuttosto dal “non essere”, nel senso che vi rientrano quelle azioni che non sono sanitarie, non sono assistenziali, ecc.
Una caratteristica di quest’area, che diviene il campo di osservazione del fenomeno educativo della vecchiaia, a mio avviso, è che ad essa vi collaborano, vi interagiscono diverse discipline, in parte complementari. Esse sono: l’educazione degli adulti, la didattica con la sua riflessione su problematiche di tipo pratico, e l’animazione, con le sue tecniche e metodologie. Il rapporto tra queste discipline, è di collaborazione e sostegno. Esse pur collocandosi su livelli diversi, si compenetrano e completano a vicenda, in una sequenza ciclica, simile al rapporto che intercorre tra la teoria e la pratica in generale. Bisogna dire che specialmente in questo campo le distinzioni e i confini netti sminuirebbero la capacità di riflessione di un argomento che in fin dei conti si riconduce alla ricchezza umana della vita in tutte le sue espressioni e in tutte le sue fasi.
Cerchiamo ora di definire con l’aiuto di Sergio Tramma quest’area di interventi composita e con scarsa regolamentazione di accesso e di ordine interno. Essa comprende sia “progetti e attività rivolte agli anziani con il chiaro intento di favorire una vecchiaia non emarginata, inserita nella comunità di appartenenza, e che comprende anche strategie finalizzate ai non anziani”, da parte dei quali si vorrebbe ottenere una valutazione più realistica e meno negativa della vecchiaia; sia “comprende interventi tesi a orientare l’educazione degli anziani verso la creatività”; sia ancora “interventi volti a preparare gli adulti ad affrontare il momento in cui si distaccheranno dal lavoro” . Nella dichiarazione di intenti questi interventi in linea generale si strutturano attorno al tempo libero degli anziani, impiegandolo in attività ludico-ricreative, oppure in attività che stimolino la crescita culturale e civile e lo sviluppo della socialità, o ancora che promuovano l’impegno degli anziani verso attività socialmente utili di volontariato, o attività occupazionali in grado di valorizzare la professionalità acquisita in precedenza. La mia tesi non si colloca precisamente in un’area di intervento, ma allo stesso tempo spazia sui contenuti di tutte, raggiunge in modo trasversale un po’ tutti gli ambiti di riflessione e di intervento sulla vecchiaia e lo fa attraverso uno sguardo pedagogico ampio, che apre a domande sempre nuove, che invita a rivedere cliché mentali e comportamentali radicati nella nostra cultura.
Nel quarto capitolo all’interno delle coordinate della vecchiaia inserisco alcune problematiche che sono sentite in modo particolare dagli anziani. Non che la solitudine o l’isolamento sociale e gli altri problemi già individuati siano condizioni problematiche solo per gli anziani, tutt’altro, ma se vissute dagli anziani presentano delle caratteristiche particolari, su cui diviene importante soffermarsi anche per le conseguenze che esse hanno sulle comunità locali in termini di immagine e di rapporto con la vecchiaia nel suo complesso. Di seguito ho cercato di proporre alcuni ambiti di intervento significativi per la vecchiaia con pieno diritto di cittadinanza nella nostra società. Questo per onorare il principio didattico espresso sopra secondo cui non ha senso parlare di problemi o di situazioni negative se la discussione non ha dei risvolti di indirizzo pratico.
Il lavoro nel suo complesso è un tentativo di unire in un'unica trattazione gli anziani, che sono i protagonisti a tutti gli effetti, la loro educabilità, di cui metto in evidenza le basi e i princìpi, e il metodo autobiografico, che mi propongo di dimostrare essere un valido presidio per tale fine. Questo metodo può essere proposto sia direttamente agli anziani sia agli educatori che con essi lavorano. Così dopo il quinto capitolo che cerca di fissare i criteri generali per una pratica educativa rivolta alle persone anziane, sviluppo il capitolo conclusivo sul metodo autobiografico. La posizione conclusiva di questo capitolo sottolinea, a mio avviso, l’invito a proseguire la riflessione, a porsi nuove domande, ad aprire nuovi orizzonti. Il metodo autobiografico in fondo non fa altro che ricondurre il protagonista narratore, che può essere ognuno di noi, a guardarsi dentro, a riscoprirsi attore principale della propria formazione, a recuperare le proprie risorse, a volte assopite perché travolte dagli eventi, e, forte di queste rinnovate energie, aprirsi all’incontro con gli altri, giovani, adulti, anziani, nostri compagni di viaggio.




Cultura



Home page