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 Le Fate
di Novella Cantarutti
 

Un omaggio alla più grande poetessa friulana contemporanea


note biografiche

note bibliografiche
(testi di Novella Cantarutti)

 

 
 

 

M’incanta, la poesia di Novella Cantarutti, come la conchiglia marina, in Alceo, riempie di meraviglia la mente dei fanciulli: si rinnova ogni volta lo stupore per il levigato biancore scolpito dall’acqua ed ecco, il fanciullo, quando l’avvicina all’orecchio, s’immerge nella profondità del mare.
Un lirismo dal valore altamente evocativo contraddistingue i versi ma anche la prosa della poetessa friulana; ogni singola parola nelle sue liriche racchiude infatti un mondo intero, il mondo che l’ha formata e che attraverso la sua opera ella conserva e tramanda.
Ella stessa dice, a proposito della propria scrittura, “la parola mi è sempre conchiglia”.
Il linguaggio della Cantarutti trae origine dal greto del Meduna, dalla sua valle, su cui sovrasta il monte Raut, dalla pietra delle case di Navarons, quel borgo di Meduno “sconciato dal terremoto”, nella cui parlata – la lingua della madre – modula il suo canto. Una conchiglia che si è andata formando nel tempo ed ha assunto la spiralità che è propria della forma poetica, a racchiudere una creatura che in essa trova dimora e rifugio. Tale immagine si presta a duplice lettura: conchiglia intesa come nicchia in cui riparare e difendersi dal mondo esterno, spesso inesplicabile ed insidioso; ma è anche come luogo in cui è conservato e si perpetua un micro-cosmo.
Ostico risulta, quel friulano stretto, a chi friulano non è; tuttavia nei suoi scritti soccorre una raffinata traduzione curata dall’autrice stessa. Si veda a tal proposito la poesia “Scelgo parole”, del 1979.
La Cantarutti interviene sul linguaggio con gli strumenti propri di un attento ed acuto etno-linguista; la sua attività di ricercatrice nel campo delle tradizioni popolari, d’altra parte, va di pari passo con quella poetica.
Ella opera con la consapevolezza del peso specifico che ciascun termine possiede in quanto rivelatore di una civiltà. Ma nel contempo è con religioso rispetto ch’ella fa uso della lingua, il rispetto e la gratitudine che nutre verso la gente che di quella civiltà è depositaria. Citando un’affermazione tratta da uno dei suoi testi più intimi, “La terra ha il volto di mia madre”, i paesaggi che emergono dalla memoria sono sempre luoghi abitati, vissuti dalla gente del suo Friuli; e se sbiadiscono nella memoria i volti di uomini e soprattutto di donne, la terra ne conserva le tracce e ne testimonia i passi, affaticati sotto il peso delle gerle e degli anni.
“Ciò che accompagna ed accomuna i miei studi di tradizioni popolari e la mia poesia è la meditazione costante sul nostro apparire impercettibile nell’universo dove però la nostra vita segna un arco incrociandosi con altre vite e accendendo quelle nuove, prima di scomparire, ma non nel nulla”: così spiega la stessa poetessa l’origine della propria poetica.
L’opera di Novella Cantarutti – la più significativa poetessa contemporanea di lingua friulana- per l’universalità delle sue tematiche ha il respiro dei grandi poeti. Se il nucleo originario della sua poesia va cercato tra i lembi di una civiltà ormai in dissolvimento, i suoi versi sono attraversati da una tensione esistenziale che colloca l’autrice di diritto nel panorama della cultura europea. Che lo esprima in parlata o in lingua friulana, quel male di vivere evoca immediatamente la moderna inquietudine già cantata da Leopardi, e, ancora, ha sapore tutto montaliano quel venir meno della parola ch’ella segnala in più testi. Non ho certo la pretesa, con queste annotazioni sparse, di comporre un saggio sull’opera di Novella Cantarutti, per questo ci sono studiosi della portata del prof. Rienzo Pellegrini. Le mie sono piuttosto personali considerazioni a conferma di quanto la poesia ancor oggi – in un’epoca distratta e frettolosa, che costringe il tempo poetico fino a soffocarlo – sappia essere consolatrice, quanto la poesia possa “dilatare il tempo della vita”.
M’incanta e mi commuove leggere la Cantarutti, ma tra le tante opere quello da cui sono partita e cui sovente ritorno è un testo breve che si annovera tra le “leggende”, intitolato “Lienda color turchin” e pubblicato dal Circolo Culturale Menocchio di Montereale Valcellina nella fortunata collana dei “Quaderni”.
Ricercatrice rigorosa, fin dalla metà degli anni ‘40 ha condotto studi nel campo del folklore e della narrazione orale in Friuli, a partire dalla Val Medusa e Val Colvera, con particolare riguardo alle tracce lasciate nell’immaginario popolare dalle creature mitologico – fantastiche; la raccolta che ne è risultata, dal titolo “Oh, ce gran biela vintura…”, è stata riedita nel 2002.
La poesia della Cantarutti fa fiorire gli spazi del non detto della tradizione non scritta. Nell’immaginario popolare le fate appaiono come creature fugaci, dall’aspetto appena accennato, intente spesso a svolgere lavori comuni (ad esempio lavare panni). Poco è detto, tutto è lasciato alla fantasia dell’ascoltatore, ed ecco la fantasia poetica veste le pagine di una prosa incantata, ricama con il filo della poesia l’ordito dei racconti orali.
Le fate, che tra le creature fantastiche rievocate dagli informatori sono quelle su cui vorrei soffermarmi in questa sede, prendono vita e balzano fuori dalla sua pagina. Ciò che nell’oralità non è detto e manca - e di questo lei fa puntuale e rispettosa trascrizione negli studi - nei testi letterari la sua fantasia completa, riempie gli spazi lasciati vuoti dall’immaginario popolare e si dipanano le “liendi”.
Il tempo in cui sono proiettate le vicende che ha per protagoniste le fate è quello delle fiabe dove il passato, con l’uso dell’imperfetto, è indefinito, “tal timp rimìt”; nel luogo in cui sono ambientate si ritrovano i luoghi dell’autrice, i cortili, i paesini, gli stavoli, i sentieri percorsi, i prati in fiore, il Serenàt. E’ sul Serenàt che si cela alla vista dell’uomo un “nìt di fadi”, da cui prende avvio la leggenda turchina.
Il breve testo - nella straordinaria prosa poetica che lo distingue e la cui intensità è per me motivo di commozione che si rinnova ogni qual volta lo leggo – assume il valore di un canto in prosa, il canto della fata che si affievolisce fino a spegnersi per lasciare infine di sé sul prato il velo turchino: ecco la leggenda che narra l’origine dello “sclop”, la genzianella, il fiore turchino che non ride.
Nelle fate della Cantarutti, pensando anche agli altri testi inseriti nel volume “Sfueis di chel atri jeir”, è possibile riconoscere i volti, le mani delle donne da lei incontrate nella lunga esistenza e che compongono la sua memoria.
Nei racconti di donne come la “Cariluta” si ritrovano forse le “fila di sogni” con cui Novella ha tessuto i suoi balli di fate.
L’origine delle sue creature letterarie, depositarie di un sapere antico, affonda nella tradizione orale, come s‘è detto a lungo studiata dalla poetessa; il punto d’incontro tra le due culture avviene allorquando nel cuore della fata irrompe un sentimento che non le appartiene: il silenzio che avvolge la valle, interrotto soltanto dell’eco di canti intonati dalle fate, è improvvisante lacerato da un lamento; il paesaggio intinto nell’arcobaleno si offusca rapidamente; nel regno sereno e distaccato fa irruzione il dolore. “E il cuore non saper reggerlo più”, “e il cour no ve pi flat par régialu”.
La dimensione delle creature fantastiche ha le sue leggi: il dramma che si consuma non ha che una conclusione, lo spegnimento della fata. Così può essere preservato il “nido”, così si rinnova la natura.