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Nel 1938 furono 
introdotte in Italia le leggi razziali discriminanti i cittadini di religione 
ebraica sulla base d’asserzioni razziali. Nel 1937 si era presentata una prima 
avvisaglia di carattere razzista: la legge puniva i matrimoni tra cittadini 
italiani e sudditi delle colonie dell’Africa orientale con la reclusione da uno 
a cinque anni. 
Le leggi razziali fasciste non sono una pietra d’inciampo del popolo italiano, 
uno spiacevole incidente di percorso, ma il risultato di un lungo processo d’inculcamento 
di pregiudizi. 
Nel 1848 un sovrano di casa Savoia, Carlo Alberto, sull’onda degli entusiasmi 
liberali, restituiva piena libertà di culto ad ebrei e valdesi del regno di 
Sardegna; novant’anni più tardi un altro sovrano di casa Savoia, Vittorio 
Emanuele III, avallava con la sua firma la discriminazione per legge. 
 
Se agli inizi del secolo qualcuno avesse chiesto agli studiosi in quale nazione 
europea c’erano maggiori possibilità di manifestazione dell’antisemitismo, 
questi avrebbero risposto, con certezza, la Francia. Proprio nel paese 
transalpino si erano manifestate gravi forme d’intolleranza, culminate nel 
1894-98 nel processo Dreyfus, mentre nella Russia zarista, dal 1881, i pogrom 
(violente sommosse popolari) erano stati utilizzati dal regime per scaricare le 
tensioni sociali. Non mancavano eloquenti e preoccupanti segnali provenienti da 
tutto il continente europeo. 
Antisemitismo e razzismo, sia pur nella loro diversa origine storica, hanno 
trovato, tra il XIX e il XX secolo, una drammatica combinazione nelle ideologie 
totalitarie, culminata con la pianificazione nazista dello sterminio di massa.
 
 
PERCHÉ L’ANTISEMITISMO? 
 
Potremmo affermare che è una posizione ideologica, su basi falsamente razziali, 
ostile alle popolazioni di religione ebraica. Ancora nella prima metà 
dell’Ottocento era definito come “antigiudaismo”.  
L’antigiudaismo attraversa la storia dell’umanità fin da epoche precristiane ed 
ha coinvolto tanto l’islamismo, quanto altre culture in cui non vi è alcuna 
presenza d’ebrei. 
Essenzialmente riflette un pregiudizio, fortemente radicato, nei confronti 
dell’ebraismo, quale entità culturale e religiosa, che non accetta 
l’integrazione entro le varie realtà in cui gli ebrei si sono venuti a trovare. 
 
Si riscontrano due filoni d’antisemitismo: 
 
Antisemitismo teologico 
In conformità a fuorvianti enunciazioni, la Chiesa cristiana ha lanciato in 
passato due accuse, rimaste per diversi secoli inestinguibili: deicidio, in 
altre parole di aver ucciso Dio nella persona di Gesù, e d’essere associati al 
diavolo. Da S. Agostino in poi, l’antisemitismo teologico trovò forza nel 
concetto del “popolo testimone”, in altre parole la discriminazione degli ebrei 
come prova di un disegno divino per rendere testimonianza della verità del 
cristianesimo. 
Ciò portò a giustificare lunghi secoli di discriminazione da parte degli Stati 
cristiani. 
La prima crociata (1096) di papa Urbano II diede il via ad una lunga stagione di 
persecuzioni che sfociarono nelle successive lotte religiose, che coinvolsero 
tutto il continente europeo. Le dispute scatenate dalla Riforma luterana non 
favorirono la posizione degli ebrei europei: Lutero scatenò le sue invettive 
contro di quanti di religione ebraica non si erano convertiti e non avevano 
abbracciato il protestantesimo; i Gesuiti si dichiararono favorevoli ad una loro 
chiusura nel ghetto perché ritenevano il provvedimento utile alla propaganda 
cattolica.  
Comprensibilmente in seno agli ebrei si affermò un atteggiamento d’autodifesa, 
di chiusura e diffidenza verso la società dei cristiani, e trovarono maggior 
comprensione e tolleranza tra i musulmani, coi quali condividevano pure alcune 
affinità culturali. 
Le Crociate portarono ad un’intensificazione dei traffici nel bacino 
mediterraneo, che favorì lo sviluppo dell’intermediazione finanziaria da parte 
degli ebrei (attività interdetta ai cristiani). Ciò, nelle situazioni di crisi, 
divenne motivo per far scatenare l’antisemitismo economico e politico.  
 
Antisemitismo economico e politico  
L’antisemitismo economico deriva da quello teologico e neppure nel corso del 
XVIII secolo, nell’età dei Lumi, le nuove correnti filosofiche riuscirono a 
risolvere i motivi di discriminazione. Ad atti di grand’apertura e tolleranza 
fece seguito altri di chiusura; lo stesso Voltaire, gettando le basi dei 
princìpi della storia antiprovvidenzialistica, favorì, anche se indirettamente, 
ad alimentare le successive interpretazioni discriminatorie, ora non più sul 
piano religioso ma razziale. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, 
l’affermazione della teoria delle razze introdusse nuovi fattori di 
giustificazione dell’antisemitismo. Va precisato che l’antisemitismo su base 
razziale non implicava una discriminazione ma favoriva il pregiudizio per 
associazione d’idee.  
Nel campo delle teorie politiche socialiste, l’equiparazione degli ebrei alla 
borghesia capitalista – sostenuta anche da Karl Marx – trovò un certo consenso e 
spesso fu utilizzata estensivamente in conseguenza della grave crisi economica 
di fine Ottocento. In Francia, Germania, Austria nacque partiti e movimenti 
d’opinione dichiaratamente antisemiti, pronti a sfruttare le tensioni del 
proletariato e le paure del ceto medio davanti ai grandi cambiamenti politici.
 
Nell’Europa orientale, le correnti antisemite si rifacevano invece ai motivi 
cristiano-medioevali dell’antigiudaismo, spesso orientati con abili campagne di 
propaganda. Il caso più clamoroso è offerto dai Protocolli dei Savi Anziani di 
Sion (Russia, 1903 e Parigi 1905), un falso compilato dalla polizia segreta 
zarista per dimostrare presunti piani di dominio mondiale degli ebrei. Per 
quanto sia stata dimostrata la sua completa falsità, è stato più volte posto a 
fondamento delle campagne antisemite orchestrate da nazismo, fascismo e dai 
movimenti che si richiamano a queste ideologie. 
La reazione a queste campagne persecutorie fu la nascita di un vivace movimento, 
diffuso soprattutto tra i giovani ebrei russo-polacchi, per un’emancipazione col 
ritorno alla Palestina. Nel 1897 Theodor Herzl convocò a Basilea il primo 
congresso mondiale del movimento Sionista, che si poneva l’obiettivo di 
raccogliere politicamente l’aspirazione religiosa degli ebrei di tornare nella 
“terra promessa”, dove nel frattempo si erano organizzati i primi nuclei 
d’insediamento. La proposta fu inizialmente criticata ed ostacolata tanto dagli 
ambienti ebrei più radicali, quanto da quelli riformati che tendevano ad una 
maggior integrazione negli Stati d’appartenenza. 
La Rivoluzione d’ottobre offrì grandi attese e speranze agli ebrei russi, per 
una completa emancipazione, ma ben presto dovettero fare i conti con 
l’irrigidimento del regime e la costituzione dello stato sovietico che trovò 
nell’antisemitismo le giustificazioni per le repressioni di massa e le 
persecuzioni degli intellettuali. 
Gravi forme d’intolleranza riguardarono l’Europa orientale del primo dopoguerra: 
la disgregazione degli imperi plurinazionali aveva favorito l’affermazione dei 
più esasperati nazionalismi, spesso fondati sul principio etnocentrico dei nuovi 
Stati e dei confini sorti dopo la prima guerra mondiale. Gli ebrei si trovarono 
coinvolti nei nuovi processi identificativi territorio-nazione-stato: non 
trovando una posizione coerente alla loro tradizione, segnati dall’improvvisa ed 
imposta diversità subirono forme crescenti di discriminazione. Prima ancora che 
nella Germania si diffondesse il nazismo, già in Polonia – per fare un esempio – 
l’intolleranza era un fenomeno che preoccupava. I flussi migratori verso la 
Palestina erano indicativi a segnalare lo stato delle cose. Più che 
antisemitismo, o vecchio antigiudaismo, si trattava di nuovo razzismo.  
 
PERCHÉ IL RAZZISMO? 
 
Bisogna precisare che il termine di “razza”, per la specie umana, è spesso usato 
in modo vago e confuso. Se è possibile prendere in considerazione in modo 
relativamente rigoroso singole caratteristiche biologiche, è arduo o impossibile 
applicare alla specie umana una classificazione per razze, ciascuna delle quali 
corrisponda ad un determinato e preciso modello o complesso di caratteristiche. 
Le differenze biologiche sono, infatti, il prodotto della sovrapposizione dei 
meccanismi genetici di selezione nel corso del lento processo d’evoluzione. 
Queste caratteristiche (tratti somatici, frequenza dei gruppi sanguigni) sono il 
risultato di più fattori selettivi che hanno agito in epoche passate: questi 
fattori oggi tendono a perdere importanza sia per il continuo interscambio, sia 
per il ridursi degli habitat naturali, veri elementi importanti nella formazione 
delle caratteristiche biologiche. 
La parola “razza” comparve probabilmente in Inghilterra nel XVI secolo per 
indicare l’origine dei primi stati nazionali europei, anche se già in antichità 
(Plinio il Vecchio, 23-79 d.C.) era stato posto il problema di classificare il 
genere umano: le differenze erano spiegate con l’influenza dei fattori 
climatici.  
Alla fine del Settecento questa teoria perse d’importanza e si affermò la tesi 
poligenetica che il genere umano non discendeva da un unico progenitore: ciò 
ebbe rilevante conseguenza nel definire che le differenze, se originarie, erano 
immutabili. Da quel momento le enunciazioni sul concetto di “razza” assunsero la 
funzione di legittimare certi comportamenti sociali (colonialismo) e in 
particolare lo schiavismo. Però per consolidare il primato d’alcune razze 
(europee) su altre (non europee) gli scienziati fissarono delle scale 
gerarchiche con le quali definire i portatori di tali differenze. Nel corso 
della seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento i maggiori 
filoni della sociologia e dell’antropologia positivistica furono impegnati a 
definire le ipotesi deterministiche che sostanziavano le differenze tra la 
“razze” in termini di capacità biologiche, morali ed intellettuali. 
 
La falsa scientificità delle tesi razziste 
Differenza biologica e gerarchia delle capacità divennero le basi del pensiero 
razziale del Novecento e della conseguente ideologia razzista: la divulgazione, 
per opera dei francesi J.A. de Gobinau e G. Vacher de Lapouge e 
dell’anglo-tedesco H. S. Chamberlain, delle teorie sulla “razza” introdusse nel 
pensiero europeo la convinzione della fondatezza scientifica dell’inferiorità 
razziale dei popoli non bianchi e non ariani.  
L’affermazione del pensiero razzista portò alla legittimazione di certi 
comportamenti sociali, prima tra i quali la discriminazione degli uni sugli 
altri. Ora gli altri erano individuati in conformità a specifiche 
caratteristiche fisiche da cui si facevano discendere capacità culturali e doti 
morali, e ciascun individuo di quel gruppo era portatore esemplare di tali 
caratteristiche.  
Superata l’esigenza strategica di legittimare lo schiavismo e il colonialismo, 
il razzismo s’intrecciò con i pregiudizi antisemiti, anzi trovarono nel primo i 
presunti fondamenti scientifici, fino alla giustificazione del genocidio nazista 
del popolo ebreo (soluzione finale). 
 
PERCHÉ LA “SOLUZIONE FINALE”? 
 
Il nazionalsocialismo s’impose come un movimento politico di tipo nuovo perché 
coniugava nel suo verbo l’ideologia razzista della superiorità germanica, un 
radicale nazionalismo e il progetto di una riduzione degli squilibri sociali. 
Dopo il fallimento della via rivoluzionaria (putsch di Monaco 1923), la grave 
crisi economica del 1929 favorì la sua ascesa parlamentare costantemente 
accompagnata dalla violenza politica e dal disprezzo dei diritti umani. Dopo la 
nomina d’Adolf Hitler a Cancelliere (1933), i fautori del compromesso con i ceti 
dominanti, liquidarono l’ala rivoluzionaria ed imposero in breve tempo un regime 
capace di controllare capillarmente ed organizzare ideologicamente la società 
tedesca. Eliminata fisicamente l’opposizione (i campi di concentramento sorgono 
fin da subito - nell’autunno 1933 furono segnalati 45 campi di concentramento 
per 40 mila deportati), fu progettata una “nuova società” fondata su criteri 
razziali (le SS, oltre che corpo scelto, dovevano essere una riserva permanente 
di razza pura), senza distinzioni sociali, e garantita da prestazioni a favore 
della collettività. 
 
Le tesi razziste del nazionalsocialismo 
La fusione delle teorie razziste e dei pangermanisti tedeschi dell’Ottocento 
trovò piena realizzazione nella visione razzista del nazismo: l’unica “razza” 
portatrice di tutte le virtù umane sarebbe stata nel passato quell’ariana, 
creatrice delle antiche civiltà dell’India, Persia e Grecia; di essa sarebbero 
state continuatrici le genti germaniche, e fra queste, in particolare, il popolo 
tedesco, vissuto per secoli nell’Europa centrale, anche in nuclei isolati, senza 
subire assimilazioni dalle popolazioni vicine. Così le stirpi germaniche, più di 
tutte le altre genti ariane, avrebbero saputo sfuggire alle contaminazioni con 
“razze” inferiori ed avrebbero così difeso con la loro purezza l'originaria 
superiorità. 
Sul terreno pratico, la mistica del razzismo implicava al nazionalsocialismo, 
del quale era un motivo fondamentale, la necessità di unire tutti i parlanti 
tedeschi nella Grande Germania (estesa nell’affermazione della superiorità delle 
genti germaniche anche ad olandesi, fiamminghi, danesi, norvegesi, svedesi), di 
limitare al massimo contatto tra i tedeschi ed individui di stirpe diversa 
(donde il divieto di matrimonio senza l’autorizzazione governativa), di evitare 
al massimo ogni contatto con gli ebrei, ritenuti popolo semitico estraneo alle 
tradizioni militari del germanesimo. 
Massimo esponente teorico del razzismo nazionalsocialista era Alfred Rosenberg, 
tedesco-baltico di Reval, suddito russo rifugiato dopo la prima guerra mondiale 
in Germania. Egli aderì subito al partito di Hitler facendo una rapida carriera 
politica. Nel 1930 pubblicò il libro Il mito del XX secolo (messo all’indice 
dalla Chiesa nel 1934), in cui espose le teorie di un neopaganesimo, fondato 
sull’esaltazione delle virtù di una pura razza germanica non contaminata da 
rapporti con gli ebrei. Rosenberg considerava la massoneria e il bolscevismo 
prodotti dello spirito ebraico e ciò rappresentava uno degli elementi dominanti 
della sua predicazione fanatica. Per queste responsabilità e per aver governato 
i territori russi occupati, fu condannato a morte a Norimberga.  
Tuttavia non era stato chiarito come avrebbe dovuto concretarsi il radicale 
antisemitismo che permeava l’ideologia nazista: era, però, facile intuirlo. 
Inizialmente il regime adottò una politica di discriminazione economica e 
giuridica, che tendeva a rendere difficile la vita agli ebrei tanto da indurli 
ad emigrare. Il 15 settembre 1935 furono emanate le “Leggi di Norimberga” che 
definirono chi poteva far parte del popolo tedesco e chi ne doveva essere 
escluso: fu definito lo stato d’inferiorità razziale degli ebrei e fu la 
legittimazione ad ogni futura violenza (la “notte dei cristalli” del 9 novembre 
1938 ebbe a pretesto l’uccisione per mano di un ebreo-polacco di un diplomatico 
tedesco a Parigi). Queste leggi autorizzarono l’estirpazione d’interi ceppi di 
popolazioni, dagli ebrei agli zingari, ai popoli slavi dell’Europa orientale. 
Tuttavia, il regime nazista aveva emanato, negli anni precedenti, dei 
provvedimenti sulle malattie ereditarie (luglio 1933), sul boicottaggio dei 
negozi degli ebrei (marzo 1933), sul pensionamento dei burocrati non ariani 
(aprile 1933); seguirono poi altre leggi contro i soggetti originati da 
matrimoni misti (novembre 1935) e sulla depredazione dei beni degli ebrei 
(aprile 1938). Con la guerra, davanti al gran numero d’ebrei abitanti nei 
territori occupati, il regime avviò le procedure per una soluzione radicale del 
problema attraverso la selezione, la deportazione, lo sfruttamento fisico, lo 
sterminio. I piani furono elaborati da Mueller, Heydrich, Hoffmann, Eichmann, 
nel corso della “Conferenza di Grosser Wannsee” (20 gennaio 1942), ed è 
plausibile ritenere che Hitler li avesse approvati. Circa 700 mila ebrei furono 
eliminati in forme non pianificate durante l’avanzata tedesca in Unione 
sovietica. Gli altri nei ghetti russi e polacchi. A partire dall’estate 1942 
entrarono in funzione i campi di sterminio, in cui gli ebrei, deportati da tutta 
l’Europa, vennero sterminati con le camere a gas. Moltissimi altri morirono, 
durante i rastrellamenti, i trasporti, nei campi di concentramento grandi e 
piccoli sparsi dalla Francia alla Lituania, da Trieste a Lubecca. Si calcola che 
la soluzione finale abbia provocato la morte di cinque-sei milioni d’ebrei. 
 
IL FASCISMO AVEVA IN SÉ CARATTERI RAZZISTI E DISCRIMINATORI? 
 
Anche se prevale l’opinione di un “volto umano”, di un carattere 
italianamente blando del fascismo, l’ideologia mussoliniana portava in sé molti 
aspetti propri delle teorie etnocentriche che si erano affermate a cavallo tra 
Ottocento e Novecento e che erano state il fondamento delle posizioni 
nazionaliste. Segno eloquente è la politica adottata nelle regioni di confine e 
nelle colonie. Nelle prime, giustificando la necessità di contrastare 
nazionalismi opposti e l’ardore dell’antifascismo militante, non esitò ad 
applicare metodi di snazionalizzazione fino al “genocidio culturale” contro le 
minoranze nazionali comprese all’interno dei confini dello Stato italiano. Nelle 
seconde adottò, in linea con la logica colonialista del tempo, la mano pesante 
per stroncare ogni movimento di ribellione. 
 
Nazionalismo ed etnocentrismo della Venezia Giulia 
Il fascismo giuliano, autodefinitosi già nel 1919 “di confine”, si presentò 
fin da subito con caratteristiche di aggressività, spesso ampiamente coperta 
dalle autorità militari e di polizia che tollerarono aggressioni e violenze, 
dall’incendio del “Narodni Dom” di Trieste agli omicidi politici. Una lunga scia 
di scontro che, in un certo senso, era il proseguo sotto forma di una “guerra 
speciale” della contesa nazionale con sloveni e croati sulla Venezia Giulia 
aperta alla fine dell’Ottocento e continuata durante la prima guerra mondiale. 
Violenze e intimidazioni accompagnarono le elezioni politiche del 1921 e del 
1924 e il consolidamento del fascismo in regime dopo il delitto Matteotti; con 
il pretesto di sedare sommosse contadine e gli scioperi operai si accentuarono 
le azioni contro sloveni e croati, ritenuti i primi responsabili delle tensioni. 
I responsabili del fascismo locale cercarono di individuare e stroncare 
l’opposizione politica e quella delle minoranze, per avere le mani libere nella 
politica di espansionismo adriatico e balcanico alla quale il capitalismo 
italiano si dimostrava interessata e vedeva in Trieste, in particolare, il 
trampolino di lancio. 
Gli oppositori vennero colpiti attraverso il Tribunale Speciale e nei riguardi 
delle minoranze (definite allogene, in altre parole appartenenti ad un’altra 
nazionalità) il fascismo adottò una politica gravemente equivoca, impedendo i 
diritti di libera espressione culturale ed economica, perseguendo le frange 
nazionaliste e cercando di attrarle nel sistema dello stato fascista attraverso 
forme d’affrancamento politico e d’emancipazione sociale, nella capziosa 
distinzione tra, appunto, soggetti allogeni e alloglotti, in altre parole con 
lingua diversa da quella della maggioranza dello Stato e quindi ritenuti più 
duttili nei riguardi dei disegni intrapresi. Inoltre, favorì la loro emigrazione 
e quindi una semplificazione etnica della regione. Ma non fece altro che scavare 
ulteriori solchi di profondo odio in un’area già difficile. 
Il fascismo non fece mai mistero dei suoi progetti e nel 1927 la rivista 
Gerarchia, principale organo teorico del regime e diretta dallo stesso Mussolini, 
pubblicò un numero speciale alla Venezia Giulia, dove i gerarchi locali resero 
espliciti piani e prospettive future: nulla sarebbe stato tollerato come 
sovvertitore dell’ordine morale creato dal fascismo. Negli anni successivi 
entrarono in vigore ulteriori provvedimenti che portarono alla riduzione nella 
forma italiana dei cognomi, nomi e della toponomastica regionale, alla chiusura 
di scuole, associazioni, biblioteche, alla soppressione della stampa, alla 
persecuzione dei sospetti di praticare il proprio sentimento nazionale. Ci 
furono degli interventi presso la Chiesa per limitare e circoscrivere l’uso 
dello sloveno e del croato nella liturgia. Seguirono nuovi processi del 
Tribunale Speciale, giunto appositamente in regione, con condanne esemplari, 
fino alla pena di morte. I cosiddetti allogeni furono discriminati all’interno 
delle forze armate e della pubblica amministrazione. 
Quindi, anche se la regione non era pronta a comprendere le ragioni delle leggi 
antisemite, vista la consolidata presenza degli ebrei nei principali capoluoghi, 
spesso artefici delle fortune economiche degli ultimi cinquant’anni e 
perfettamente integrati nel sistema sociale e politico, era purtroppo preparata 
a sopportare gli strumenti e le logiche del razzismo e della discriminazione. 
 
PERCHÉ LE LEGGI RAZZIALI IN ITALIA? 
 
Una prima, immediata, risposta può essere trovata nella stipulazione 
dell’intesa tra l’Italia fascista e Germania nazista, nota come Asse 
Roma-Berlino. Patto d’amicizia siglato il 24 ottobre 1936 preparato 
dall’appoggio diplomatico tedesco alla guerra coloniale d’Etiopia e alla 
reazione alle sanzioni economiche per superare le divisioni provocate dalla 
questione austriaca. Le prime conseguenze dell’accordo furono la partecipazione 
alla guerra civile spagnola (1936-1939) e l’adesione italiana al Patto 
anticomintern (1937). Mentre Mussolini era ancora incerto per un’alleanza 
militare, alcuni ambienti del fascismo già da tempo frequentavano i congressi 
del nazionalsocialismo e spingevano per adeguare il passo politico italiano a 
quel tedesco. Così dopo la costituzione dell’Asse, il razzismo trovò nuovi 
mentori in Giovanni Preziosi e Roberto Farinacci e fu introdotto col Manifesto 
della razza, compilato da un gruppo di liberi docenti universitari, (26 luglio 
1938) e con la diffusione di una rivista propugnatrice La difesa della razza, 
diretta da Telesio Interlandi (5 agosto 1938). Già nel successivo mese di 
settembre furono adottate le prime misure vessatorie: espulsione dal territorio 
italiano degli ebrei immigrativi dopo la guerra mondiale, anche se divenuti 
cittadini italiani; esclusione dei professori ebrei dalle scuole d’ogni ordine e 
grado; esclusione degli studenti ebrei da tutte le scuole con la sola eccezione 
degli universitari già iscritti anteriormente. 
Il razzismo italiano, in quelle prime disposizioni, era solo una manifestazione 
ufficiale di antisemitismo. Ben presto questa ristretta posizione fu superata 
con la successiva Dichiarazione sulla razza dell’ottobre 1938, che fissava nuove 
misure restrittive e vessatorie (divieto di matrimonio con individui non ariani; 
necessità di consenso governativo per il matrimonio con stranieri; divieto agli 
impiegati statali di sposare individui di nazionalità straniera). Così 
s’intendeva inquadrare nella nuova politica razzista tutta l’attività fascista 
in materia demografica, assistenziale, educativa ed associativa. Per attuare 
questa politica fu creata, presso il Ministero dell’Interno, un’apposita 
Direzione Generale; le anagrafi comunali furono obbligate alla registrazione 
dello stato civile su base razziale e tale menzione doveva comparire su tutti 
gli atti pubblici.  
Particolarmente gravi risultarono le disposizioni di discriminazione, estese 
anche a quanti, non solo di genitore ebreo, appartenevano alla religione ebraica 
o avevano fatto manifestazione di ebraismo. Eppure, in una contraddizione tutta 
italiana, non era considerato di “razza ebraica” chi poteva dimostrare che dal 
1° ottobre 1938 apparteneva a una religione diversa da quell’ebraica, oppure 
risultava beneficato in virtù di particolari benemerenze militari e politiche 
(R.D.L. 17 novembre 1938, n.1728).Quest’ultimo aspetto fu esteso con 
l’introduzione della figura dell’arianizzazione: la possibilità di vedere 
dichiarata la non appartenenza alla “razza ebraica”, anche in difformità degli 
atti dello stato civile. 
Nuove limitazioni furono promulgate nel febbraio 1939, in materia di proprietà 
immobiliare e quattro mesi più tardi, dopo la firma del Patto d’Acciaio (22 
maggio), furono introdotte divieti all’esercizio delle libere professioni. 
Seguirono una miriade di disposizioni capillarmente adottate e rese vigenti ed 
una forte campagna di propaganda contro il «nemico d’Italia”. 
 
Gli italiani davanti alle leggi razziali 
Le leggi razziali erano anche la conseguenza della debolezza del regime nella 
strategia del consenso ma trovarono alimentazione in una campagna diffamatoria 
che era iniziata ben prima. Ancora nel 1935 il concetto di “razza” non era 
praticato dalla pubblicistica fascista che preferiva sottolineare, nella corsa 
al primato demografico, quelli di popolo e di nazione. Nel 1937 esce il pamphlet 
Gli ebrei in Italia di Paolo Orano, contenente le solite accuse tradizionali, ma 
con la preoccupazione di risolvere il rapporto fascismo-ebraismo: Orano offriva 
molte patenti di “buon fascista” per ottenere sconti e benefici nei 
provvedimenti razziali che sarebbero giunti. La pubblicazione scatenò una forte 
polemica sul sionismo che riguardò principalmente il ceto intellettuale. I 
rappresentanti delle Comunità israelitiche chiesero spiegazioni al governo per 
il tenore di certi interventi comparsi sulla stampa e questi si preoccupò di 
rassicurarli che quelle opinioni erano isolate. Questo dualismo tra la posizione 
ufficiale e l’indirizzo di una certa stampa caratterizzò la fase precedente la 
promulgazione delle leggi razziali. 
La popolazione italiana seguì con perplessa preoccupazione l’introduzione dei 
provvedimenti, anche perché, escluso un certo nazionalismo di maniera e qualche 
intemperanza creata in occasione delle sanzioni economiche, non intravedeva 
elementi tali da giustificare la discriminazione. Sopravviveva, invece, un 
vecchio antigiudaismo di estrazione medioevale-cattolica che comunque non era 
sufficiente per comprendere le posizioni estreme del fascismo razzista. C’era il 
pregiudizio classico verso le diversità. Clima diverso, evidentemente, nelle 
zone di confine e nelle aree storiche di emigrazione, dove le limitazioni in 
materia di matrimoni con stranieri vennero accolte con maggior preoccupazione. 
Di fatto, mentre la maggioranza s’infatuò del mito nazionalistico del primato 
italiano, solo una minoranza ascoltò le sirene della propaganda razzista. Mito 
razzista preso sul serio da mediocri intellettuali e studenti universitari in 
odore di carriera; nemmeno tutti i gerarchi cavalcarono l’idea-forza, 
consapevoli che l’esiguità numerica della comunità ebraica non rappresentava una 
minaccia, mentre la centralità di diversi suoi ragguardevoli rappresentanti, 
negli interessi economici nazionali, aveva indubbiamente favorito il regime e 
dello Stato.  
Ciò non significa che gli italiani furono estranei alle persecuzioni oppure 
rimasero fuori del cono d’ombra della Shoah: certamente molti s’impegnarono, 
anche sul piano personale e consapevoli dei rischi, a rendere meno dura quella 
condizione, e salvarono tanti ebrei destinati alla deportazione, ma il popolo 
italiano non si sottrasse dalla responsabilità di non aver capito l’indirizzo 
originario del fascismo.  
All’alba dell’ingresso in guerra, Mussolini lasciò intendere che desiderava che 
si preparassero dei campi di concentramento anche per gli ebrei. 
 
Le leggi razziali nella Venezia Giulia 
Per gli ebrei, che si erano fatti protagonisti dell’irredentismo e partecipi 
dell’Italia fascista, la legislazione razziale fu un vero e proprio trauma, 
anche perché la stampa locale, e in particolare “Il piccolo” di Trieste, con suo 
direttore Rino Alessi, aveva polemizzato con Africani in merito all’adeguamento 
della Romania ai princìpi del razzismo di stampo nazista. In verità lo scontro 
era all’interno della classe dirigente triestina: erano palesi le intenzioni di 
certi fascisti di liquidare l’ “ibrida zona dell’ebraismo massonico in camicia 
nera” per sostituirsi ai vertici della città. Infatti l’indomani della 
pubblicazione del Manifesto della razza, Alessi si allineò alla posizioni 
dell’antisemitismo indiscriminato: qualche mese più tardi avrebbe potuto 
acquistare a prezzo irrisorio “Il piccolo” dal precedente proprietario, l’ebreo 
Teodoro Mayer. Nella Venezia Giulia le prospettive apparivano più chiare, sia 
per il precedente acquisito nei confronti delle minoranze slave, sia per le 
notizie giunte dalla Germania. Infatti le reazioni non mancarono, soprattutto 
dopo l’annessione nazista dell’Austria, e non mancarono le intimidazioni verso 
la comunità israelitica da parte degli ambienti del fascismo universitario, 
fomentato dal quotidiano “Il popolo di Trieste” e sostenuto dal locale Consolato 
germanico: forse c’era chi ambiva a quei posti da professionista che si 
sarebbero resi disponibili con i provvedimenti razziali che comportarono, in 
breve tempo, alla decapitazione della classe dirigente triestina (banche, 
assicurazioni, compagnie di traffico e navigazione) ed alla spoliazione di non 
irrilevanti beni economici (imprese commerciali, aziende, industrie date in 
gestione) a vantaggio di veri e propri profittatori che se ne impossessarono a 
stralcio e dei soliti arrivisti pronti ad occupare le posizioni rimaste libere. 
Tra il 1938 e il 1939 più di 115 aziende triestine furono, in qualche misura, “arianizzate”.
 
Il tessuto economico di tutta la Venezia Giulia ne usciva profondamente mutato e 
con questa la società tutta. I ceti meno abbienti, più legati alle sorti degli 
imprenditori, anche se spesso in contrasto con questi per motivi di classe, 
manifestarono una spontanea solidarietà che divenne conforto per tanti 
dignitosamente rassegnati ma anche smarriti che cercarono nell’abiura una via di 
salvezza.  
 
Tutto ciò che n’è seguito è conseguenza della follia razzista di quegli anni 
Trenta: l’atto preparatorio come preludio di una tragedia annunciata e 
puntualmente realizzata. Le immagini che accompagnano questo testo, e tratte dal 
materiale espositivo dell’Associazione Deportati Perseguitati Politici Italiani 
Antifascisti (Trieste), sono l’eloquente prova che l’umanità non può abbassare 
la guardia davanti alle ideologie farneticanti e non può concedersi il lusso di 
dimenticare. 
Roberto Spazzali 
 
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a Trieste (1938-1942), in Trieste in guerra. Gli anni 1938-1943, Trieste 1992; 
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