[Home]
[Su]
[leggi razziali]
[canzone]
[cinema1]
[cinema2]
[regimi dittatoriali]

 

IL CINEMA DELLA COMMEDIA ITALIANA
GUIDA DIDATTICA

 

Il cinema nel dopoguerra

Nei primi anni Cinquanta, aumenta la produzione cinematografica italiana, da 104 film del 1950 a 204 del 1954. Si moltiplicano le sale di proiezione che passano da 13.296 del 1953 a 16.207 del 1955, mentre la televisione non sembra intaccare ancora questo primato. Un terzo degli incassi è ottenuto dai film italiani, mentre il primato delle preferenze è detenuto dalle pellicole americane. I maggiori produttori di Hollywood decidono di girare diversi film in Italia, soprattutto negli studi di Cinecittà, attratti dalla convenienza dei costi e dal sostegno economico garantito al cinema italiano da una specifica legge varata nel 1949 e rimasta in vigore fino al 1955. Tuttavia, la produzione italiana soffre qualche crisi: difficoltà nell’esportazione; circuiti di distribuzione monopolizzati dalle grandi Case produttrici; contrasti con gli organi censori. Proprio la censura colpisce film Senso di Visconti, Anni facili di Zampa, Totò e Carolina di Monicelli.
La fine del sostegno economico al cinema italiano mette in crisi la produzione: nel 1955 sono girati solo 68 film ed alcuni intellettuali accuseranno il governo di voler liquidare “una delle espressioni più importanti della nostra cultura”.

Film d’autore e opere d’esordio

Prima della crisi, gli esponenti del Neorealismo avevano continuato la loro opera d’introspezione e di lettura di una società delusa ed infelice: Roberto Rossellini propone, tra le altre opere, Francesco, giullare di Dio (1950) e Giovanna d’Arco al rogo (1954); Luchino Visconti consacra la bravura di Anna Magnani in Bellissima (1951) con un ritratto di una popolana e delle sue aspirazioni artistiche frustrate e proiettate sulla figlia; Vittorio De Sica confeziona un’altra favola neorealista di Zavattini con Miracolo a Milano e torna sui temi dell’emarginazione senile con Umberto D. (1951). Approda al lungometraggio Michelangelo Antonioni con Cronaca di un amore (1950); egli è attratto principalmente dai comportamenti della borghesia e segna il distacco del cinema dalle condizioni delle classi disagiate.
In quegli anni esordisce Carlo Lizzani con un film sulla guerra di liberazione Achtung bsnditi! (1951) e Cronache di poveri amanti (1954) e inizia l’attività di regista Federico Fellini che propone, con alterna fortuna, Luci del varietà (1952), Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954).

Un ritorno al melodramma

Tuttavia i temi ed i generi più in voga del cinema italiano non erano stati abbandonati, tanto che alcuni autori continuavano a battere la strada della commedia leggera e del dramma lacrimoso, che pure trovavano ampio riscontro tra un pubblico dai gusti piuttosto facili. Sono gli anni di Bellezze in bicicletta (1951) di Carlo Campogalliani, di I figli di nessuno (1951) di Raffaello Matarazzo, di Core ‘ngrato (1952) di Guido Brignone, di La cieca di Sorrento (1952) di Giacomo Gentilomo. Si assiste ad una ripresa del film storico e della storia romanzata, oppure della traduzione cinematografica delle avventure salgariane. Il cinema si occupa delle biografie di celebri musicisti (Verdi, Puccini, Caruso) e propone versioni popolari e doppiate delle opere più note. Sull’onda della commedia musicale e del “musical” americano sono prodotti i primi film musicali dove la vicenda è un banale pretesto per esaltare la colonna sonora (Canzoni di mezzo secolo; Carosello napoletano).

Tra maggiorate fisiche e comicità

Accanto alle dive del cinema, consacrate negli anni Quaranta, emergono nuove figure femminili che, nella loro bellezza devono rappresentare l’Italia che si stava risollevando dalla guerra. Le prosperose, Gina Lollobrigida (Pane amore e fantasia), Sofia Loren (Peccato che sia una canaglia) e Silvana Mangano (Riso amaro), e le più delicate, Lucia Bosè ed Eleonora Rossi Drago, trovano spazio in film di spessore diverso, ma tendenti alla commedia sentimentale, con risvolti comici. Proprio nel campo della comicità pura si affermano prepotentemente Macario e Totò, provenienti dai successi del teatro leggero e della rivista musicale, affiancati da attori caratteristici come Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo. Tornano al cinema recitato Vittorio De Sica, con figure convenzionali e tagliate perfettamente alla sua personalità, e Gino Cervi con la fortunata serie di Don Camillo, inventato da Giovanni Guareschi, spaccato bonaccione dell’Italia politica del dopoguerra.

Commedia all’italiana

La commedia all’italiana si afferma grazie a sceneggiatori come Sergio Amidei, Age e Scarpelli, Vitaliano Brancati, Susi Cecchi d’Amico, registi quali Mario Monicelli, Luigi Zampa, Steno, attori del calibro di Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi. Nella sostanza è una ripresa della matrice del cinema leggero, ma la nuova caratteristica risiede nella critica del costume. In questo senso è importante il film di Luigi Zampa L’arte d’arrangiarsi (1954) che mette in luce, tutto un campionario di furberie e con questo il camaleontismo, la disonestà incoraggiata, il conformismo. Mali che appaiono come i tratti della società italiana, che vuole dimenticare rapidamente le ristrettezze della guerra, mentre il boom economico è dietro l’angolo. La voglia di boom economico, di riscatto generazionale, giunge da un film leggero, eppure carico di motivi, come Poveri ma belli (1956) di Dino Risi. Gente di periferia, di borgata, solare e positiva, lontana dalle inquietanti riflessioni poste, qualche anno più tardi, sull’emarginazione sociale poste da Pasolini.
Queste nuove tendenze non sono colte dalla critica cinematografica che agli inizi degli anni Cinquanta ancora dibatteva animatamente sul Neorealismo. Il clima di contrapposizione ideologica divide la critica e il giudizio sul cinema italiano: si parla d’incertezze, insoddisfazioni, orientamenti contrastanti e un’eccessiva inclinazione a guardare più agli utili economici che ai risultati artistici; però, è questo il cinema, pre-televisivo, più amato dal pubblico italiano.

Il cinema “seriale”

Gli anni Sessanta si aprono all’insegna di due nuovi fenomeni cinematografici: la fioritura di nuovi registi e l’affermazione del cinema di serie. I nuovi registi, formatisi alle luce dei maestri del decennio precedenti sono: Mario Bava, Bernardo Bertolucci, Tinto Brass, Vittorio De Seta, ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, Gillo Pontecorvo, Florestano Vancini, Lina Wertmüller. Con il progressivo affermarsi della televisione, cambia il pubblico al cinema; prevalgono i giovani e sempre i generi più graditi: oltre la commedia sentimentale e di costume, sono quelli mitologico e il western. Sono film prodotti in serie, dai ritmi lenti e monotematici, girati in modo frettoloso, utilizzando sempre le stesse scenografie e comparse. Gli attori, quasi sempre italiani, usano pseudonimi stranieri ed anche qualche regista si nasconde dietro un improbabile cognome inglese o americano. I film mitologici, con i vari, Ercole, Maciste, Ursus, ottengono un notevole successo ai botteghini, mentre il “western all’italiana”, inizialmente passa inosservato fino al Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, che allora si faceva chiamare Bob Robertson: il film di Leone incassa più della Dolce vita di Fellini, della Ciociara di De Sica, di Divorzio all’italiana di Germi. Sono pure gli anni di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, con le parodie dei film più famosi, girate in quindici giorni. Compaiono anche la prima commedia sexy e le varie clonazioni dei film d’azione e spionaggio sull’onda del successo internazionale di James Bond “007”.
Eppure sono pure gli anni dell’Accattone di Pasolini (1961), del Gattopardo di Visconti (1963), fino a I pugni in tasca (1965) di Bellocchio che diventerà il manifesto di un’intera generazione. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono prodotti del film che si pongono all’attenzione per la satira di costume. Luigi Zampa firma, tra il 1948 e il 1962 la trilogia Anni difficili, sull’epoca del fascismo, Anni facili sulla corruzione del dopoguerra negli ambienti ministeriali, e Anni ruggenti, ancora sull’Italia fascista. La commedia all’italiana raggiunge l’apice con il film di Dino Risi: Il sorpasso (1962) interpretato da Gassman e Trintignant: drammatica avventura estiva di due occasionali amici che si consuma in una corsa automobilistica che diventa il simbolo delle illusioni degli anni Sessanta.

La memoria della guerra nel cinema degli anni Cinquanta

Ritorna il film di guerra, non più propaganda del conflitto contro il nazismo o l’imperialismo giapponese, ma metafora della guerra fredda e della guerra di Corea. Si pensa all’esperienza bellica per esaltare la figura dell’eroe, ma anche per parlare della guerra attraverso specifiche tipologie.
Il più classico film di guerra degli anni Cinquanta (statunitense, sovietico, britannico) è caratterizzato dai seguenti stereotipi: un piccolo gruppo di uomini con caratteri e comportamenti diversi, spesso conflittuali; un’azione militare sempre disperata; coraggio e resistenza nervosa tra i protagonisti; assenza di qualsiasi critica nei riguardi del conflitto; assenza del nemico che viene percepito come un pericolo amorfo ed una minaccia senza identità umana.
L’ottimismo è rotto da alcune pellicole che fanno vedere la guerra dalla parte degli sconfitti, come il tedesco Il ponte (1959), oppure il giapponese: L’arpa birmana (1956). Poi arrivano le prime letture psicologiche del conflitto: Robert Aldrich con Prima linea (1956) affronta il problema dell’ufficiale codardo, come è tossicodipendente quello di Okimawa (1950), oppure inetto in L’ammutinamento del Caine (1954). Il conflitto di classe tra ufficiali e soldati è invece presente nel Ponte sul fiume Kwai (1957). Con I cannoni di Navarone (1961) viene introdotta la distinzione tra tedeschi e nazisti: siamo negli anni del Muro di Berlino e della fase acuta della guerra fredda, che avevano già condizionato alcune produzioni, come I giovani leoni (1958) dove si può seguire la vicenda parallela di un giovane soldato americano-ebreo e di un coetaneo tedesco (Marlon Brando), il quale scopre la follia nazista, dopo aver aderito entusiasticamente alla guerra.

Il cinema italiano davanti alla memoria di guerra

Anche il cinema italiano riscopre la guerra, per esaltare le gesta e il sacrificio dei reparti impegnati sul fronte russo o libico (Divisione Folgore), oppure le imprese dei sommozzatori (I sette dell’Orsa Maggiore - Siluri umani). Un cinema velato dal rammarico per l’inutilità di tanto generoso slancio e con qualche imprecisione storica. Però la svolta giunge del 1959 con quattro film: La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli, Il Generale della Rovere (1959) di Roberto Rossellini, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, Kapò (1959) di Gillo Pontecorvo. Dalla prima guerra mondiale, raccontata come un affresco d’umanità, alla seconda guerra mondiale, dove le complessità ideologiche generano pure figure equivoche: il tema della sopravvivenza, che genera pure i compromessi più abietti, è affrontato in Il Generale della Rovere (da un racconto di Montanelli, ispirato ad un fatto vero) e in Kapò, mentre la maturazione della generazione cresciuta nei miti del fascismo è raccontata in Tutti a casa. Ci sono altri film che evocano la memoria rimossa degli italiani: La lunga notte del ’43 (1960) di Florestano Vancini, tratto da un racconto di Bassani, sulla rappresaglia provocata da un omicidio maturato in seno al fascismo ferrarese; Tiro al piccione (1961) di Giuliano Montaldo, sull’adesione dei giovani alla Repubblica sociale italiana; ma anche Un giorno dal leoni (1961) di Nanni Loy sulla partecipazione di un gruppo di giovani romani ad un attentato contro i tedeschi e Il federale (1961) di Luciano Salce, con un ottimo Ugo Tognazzi, ispirato alle illusioni di un fascista che non si rende conto che tutto stava cambiando. Sono film che riflettono il mutato atteggiamento della classe politica davanti alla storia recente. Esaurita la fase del centrismo, dopo la parentesi del governo di centro-destra che aveva raccolto i voti dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano, scatenando la protesta di piazza, si apre la stagione del centro-sinistra che recupera il tema della Resistenza come valore fondativo la democrazia italiana del dopoguerra. Trent’anni più tardi verrà svelato l’equivoco, ma in quel tempo, il cinema si fa interprete della necessità di raccontare quel passato. E’ un cinema che si rivolge alla generazione che ha vissuto quell’epoca, ma anche a quella immediatamente successiva che sembra non averne memoria.

SCHEDE DEI FILM

Tutti a casa (1960) – 120’
Regia di Luigi Comencini; Attori: Alberto Sordi, Serge Reggiani, Didi Perego, Carla Gravina, Eduardo de Filippo, Martin Belsam, Nino Castelnuovo, Claudio Gora, Mario Feliciani.
L’annuncio dell’armistizio sorprende in Veneto il sottotenente Alberto Innocenti (Sordi) che non comprende perché i tedeschi attacchino gli italiani; l’esercito si sbanda e il suo reparto si scioglie. Così con l’attendente Ceccarelli cerca di raggiungere la sua famiglia nel Lazio. Attraversa l’Italia occupata tra mille peripezie. E’incerto sul da farsi, ma quando suo padre gli propone di entrare nella Repubblica Sociale, allora decide di raggiungere Napoli col Ceccarelli. Qui è rastrellato dai tedeschi ed obbligato ai lavori di sgombero delle macerie. Assiste all’insurrezione della popolazione, durante la quale il Ceccarelli rimane ucciso, allora scioglie gli ultimi dubbi e si schiera con gli insorti.
Il film, sceneggiato da Age, Scarpelli e Marcello Fondato, rompe il muro di silenzio che era calato su quelle giornate, che avevano segnato pure la morte del sentimento patriottico tra gli italiani.


Kapò (1959) – 102’
Regia di Gillo Pontecorvo. Attori: Susan Strasberg, Laurent Terzieff, Emmanuelle Riva, Didi Perego, Gianni Garko, Annabella Besi, Graziella Galvani, Paola Pitagora, Dragomir Felba.
Una giovane deportata ebrea accetta di diventare guardiana-aguzzina “kapò”, pur di sopravvivere al campo di concentramento. S’innamora di un prigioniero sovietico e riscatta la sua condizione, sacrificando la vita per favorire una fuga di massa.
Con “Kapò” il cinema italiano affronta un altro argomento tabù e, soprattutto, s’impegna ad affrontare problematiche complesse, quali il degrado morale provocato dalla paura e dalla miseria. Tuttavia il film, sceneggiato da Franco Solinas, non riesce a cogliere pienamente il tema del “male” insito nell’uomo e contrappone al degrado della protagonista gli slanci ideologici delle altre deportate, oppure la redenzione morale attraverso l’amore. La critica, anche internazionale, giudicò il lavoro di Pontecorvo troppo enfatico, anche nelle caratterizzazioni negative dei nazisti. La scena del suicidio di una deportata, che si lancia contro i fili d’alta tensione, fu giudicata dal critico francese Jacques Rivette come “abietta”, perché si voleva rendere spettacolare qualcosa d’indicibile come la morte.

L’oro di Roma (1962) – 115’
Regia di Carlo Lizzani. Attori: Anna Maria Ferrero, Jean Sorel, Gerard Blain, Andrea Checchi, Paola Borboni. Il film narra del ricatto imposto da Kappler alla comunità ebraica di Roma: cinquanta chilogrammi d’oro in cambio della loro vita. Il riscatto fu pagato, ma i nazisti truccarono la bilancia e diedero luogo al loro proposito, deportando la comunità.
Il film, di ricostruzione storica, affronta un fatto reale e mette in luce i complessi atteggiamenti dei singoli ebrei, quali il fatalismo, il ribellismo dei giovani sionisti, l’ipocrisia di alcuni, l’egoismo di altri. Lizzani narra un episodio molto scomodo per la storia della capitale, intrecciando le vicende di alcuni protagonisti, che non trovò particolare e favorevole accoglienza nel pubblico di allora. Non piacque troppo nemmeno alla comunità ebraica. Lizzani fu criticato di essere stato troppo schematico nell’individuazione dei personaggi e dei motivi narrativi. Comunque, per diversi aspetti, Lizzani sembra anticipare la lettura senza pregiudizi che farà più tardi Steven Spielberg dell’Olocausto in “Schindler’s List”.


Le quattro giornate di Napoli (1962) – 110’
Regia di Nanni Loy. Attori: Domenico Formato, Regina Bianchi, Peter Dane, Frank Wolff, Jean Sorel, Lea Massari, Georges Wilson, Pupella Maggio, Gian Maria Volontè, Luigi De Filippo, Enzo Cannavale, Rosalia Maggio. E’ la storia dell’insurrezione della popolazione napoletana all’occupazione tedesca che costrinse i nazisti ad abbandonare la città. Oggetto di polemica storica sulla reale portata dell’azione, il film è un affresco corale, di respiro epico, dove Nanni Loy riesce a comporre i molti e frammentari episodi che caratterizzano quelle quattro giornate. Da fatti collettivi, spontanei, a veri e propri eroismi individuali, come il sacrificio del piccolo Gennarino Capuozzo, oppure le gesta della banda Ajello, formata da ragazzi scappati dal riformatorio.