|               | Una delle innumerevoli,
    profonde e vibranti poesie che compongono il Canzoniere  di Umberto Saba, è
    dedicata a un Caffè, il Caffè Tergeste.  Caffè Tergeste, ai tuoi tavoli bianchi
ripete l'ubbriaco il suo delirio;
ed io ci scrivo i miei più allegri canti.
Caffè di ladri, di baldracche covo,
io soffersi ai tuoi tavoli il martirio, 
lo soffersi a formarmi un cuore nuovo.
Pensavo: Quando bene avrò goduto
la morte, il nulla che in lei mi predico,
che mi ripagherà d'esser vissuto?
Di vantarmi magnanimo non oso;
ma, se il nascere è un fallo, io al mio nemico
sarei, per maggior colpa, più pietoso.
Caffè di plebe, dove un dì celavo
la mia faccia, con gioia oggi ti guardo.
E tu concili l'italo e lo slavo,
a tarda notte, lungo il tuo biliardo.(da La serena
    disperazione 1913-1915, ora in Antologia del Canzoniere, Torino, Einaudi, 1987, p.61)
 
  Sono
    versi che esprimono lo stupore di un poeta dinanzi alla realtà quotidiana fatta di gente
    comune che sconta, tutti i giorni, la fatica di vivere. Sono ladri e puttane, sono
    italiani e slavi, sono persone tanto distanti dall'uomo Umberto, ma così vicine al poeta
    Saba. Il Caffè Tergeste rappresenta l'opposto di quello che era, allora, il
    luogo prediletto dagli intellettuali, il Caffè Garibaldi: "Quel tavolo del
    Caffè Garibaldi [a Trieste], sotto il municipio, tra le sette e le nove di sera degli
    anni che seguirono all'altra guerra - scrive Giani Stuparich (cfr. Al Caffè con
    Stuparich in Enrico Falqui, Caffè letterari, Roma, Canesi, 1962) pensando
    al fratello Carlo e all'amico Scipio Slataper che dalla guerra non erano tornati - è
    passato alla storia. Trieste non ebbe forse mai un affiatamento di spiriti così
    vasto." 
 Stuparich fa una suggestiva carrellata dei clienti abituali del Garibaldi fra i quali
    spiccani i nomi di Julius Kugy, definito spirito europeo, e di James Joyce, uno spirito
    universale. Accanto a questi illustri stranier non mancavano certo gli italiani, anzi
    i triestini: primo fra tutti Italo Svevo che "sapeva fondere con la sua animata e
    spiritosa socievolezza - spiega Stuparich - la compagnia del Caffè Garibaldi.
    [...] Svevo  sapeva conquistare persino Saba: ed era, specie in quegli anni, non
    facile impresa. Saba s'iniziava allora al freudismo, con tutti gli alti e bassi di una
    nevrastenia scontrosa e patita, che solo più tardi doveva trovare nei "misteri
    freudiani" il suo centro di sollievo. Svevo, in certo qual modo aveva già disciolto
    il freudismo nell'ironia, nella sua ironia."
 Faceva parte della comitiva anche il poeta Virgilio
    Giotti che aveva con Saba un rapporto "più delicato e pericolante" anche se
    più intenso di quello con Svevo. "I due poeti - scrive ancora Stuparich - si
    sentivano paralleli, ma non evitavano certi cozzi a cui li portava il loro carattere
    diverso. Da Giotti ho sentito più volte - ammette Stuparich - esprimere un giudizio sulla
    poesia di Saba, da Saba su Giotti mai." Molto forte era pure l'amicizia tra Giani Stuparich e Giotti che, una volta sciolta la
    compagnia del Caffè Garibaldi, durante i difficili mesi dell'occupazione
    tedesca, continuarono a incontrars iin "quel piccolo bar popolare di via Ginnastica,
    ch'egli ha fissato - scrive Stuparich - vivo per sempre nei colori della sua poesia."
    Questo gruppo di amici, gli assidui del Caffè Garibaldi, erano così
    legati al locale che, quando venne chiuso fecero secesione e si spostarono in
    massa al vicino Bar Nazionale.
 Alla compagnia si aggiunsero presto alcuni amici occasionali come il mtematico e musicista
    Guido Voghera, Silvio Pittoni, fratello del deputato socialista, il pittore klimtiano
    Timmel e Roberto, Bobi Bazlen, per citarne soltanto alcuni.
 Passavano gli anni e il gruppo si assottigliava
    inesorabilmente: "Erano scomparsi Svevo e Bolaffio. Saba s'era ritirato e bisognava
    andarlo a cercare nella sua bottega d'antiquario o a casa sua, dove non era raro
    incontrarvi Giovanni Comisso e, più tardi, Sandro Penna." Della vecchia compagnia
    restavano soltanto Stuparich, Giotti e il pittore Schiffrer che si erano spostati al
    vecchio Caffè delle Stazione e fu a quel punto che si aggiunse Pierantonio
    Quarantotti Gambini.Scrive Quarantotti Gambini (cfr. Al Caffè con Quarantotti Gambini inEnrico
    Falqui, Caffè letterari, Roma, Canesi, 1962) : "ancora ragazzetto,
    intorno al 1924-25, ogni qual volta mi avveniva di passare di sera davanti ai cristalli
    del Caffè Garibaldi, non riuscivo a fare a meno di gettare un'occhiata nell'ultima
    saletta, a destra, dove, sotto il grande e bel ritratto di Garibaldi in piedi e in camicia
    rossa, vedevo radunati alcuni signori." Lo scrittore triestino allarga il quadro
    degli incontri al Caffè ricordando anche i momenti allo Stella Polare dove
    Virgilio Giotti gli disse che alcuni anni prima si era fermto anche James Joyce "cosa
    che mi sembra molto probabile - commenta Quarantotti Gambini - dato che questo Caffè era
    il più prossimo alla Berlitz School, presso la quale egli insegnava."
 Se il Caffè Stella
    Polare era tappa obbligata durante l'inverno, d'estate i letterati preferivano
    darsi appuntamento al Caffè Nazionale; si era unita al gruppo anche Delia Benco, moglie
    di Silvio Benco, autore di una suggestiva guida su Trieste (1910) che era però
    una personalità di rilievo all'interno di un altro gruppo di giornalisti e studiosi. Al
    gruppo di Quarantotti Gambini mancava soltanto Saba, sempre più schivo, sempre più
    freuidiano. Una notazione interessante di Quarantotti Gambini riguarda la presenza a
    Trieste del grande scrittore francese Stendhal. Quarantotti Gambini si chiede in quale
    Caffè potesse essersi fermato Henri Beyle, console di Francia a Trieste tra il 1830 e il
    1831 e ritiene che l'unica risposta possibile fosse al Caffè
    Tommaseo, allora il principale Caffè della città.  OGGI "Il caffè è l'unico luogo
    in cui si può veramente scrivere: si è soli, con carta e penna e tutt'al più i due o
    tre libri di cui si ha bisogno in quel momento - spiega Claudio Magris in I luoghi del
    disincanto, Trieste 1987 - abbandonati a se stessi e costretti a far contosoltanto su
    se stessi, a raccogliere le proprie energie e dosarle con misura; il tavolino su cui si
    poggia il foglio diviene la tavoladi un naufrago, cui ci si aggrappa, mentre la familiare
    armonia che ci circonda si svuota, diviene l'incerta cavità del mondo, nel quale la
    scrittura si addentra, perplessa e ostinata." 
  Sono parole
    scritte pensando al Caffè Tommaseo (dopo la ristrutturazione dell'edificio che
    lo ospita, compiuta fra il 1984 e il 1986 dalle Generali) ma sedendo a un tavolino del Caffè San Marco, il preferito da Magris che gli
    dedica il primo capitolo dei suoi Microcosmi (Milano, Garzanti, 1997). "Il
    San Marco è un vero Caffè, periferia della storia contrassegnata dalla fedeltà
    conservatrice e dal pluralismo liberale dei suoi frequentatori. [...] Al San Marco Trionfa
    - osserva Magris - vitale e sanguigna, la varietà." Magris pensa  al Caffè
    come a un luogo del disincanto dove si ripete immutato e al tempo stesso sempre
    nuovo uno spettacolo già visto in cui ognuno riesce forse a ritrovare se stesso. Anche
    Magris, come Stuparich, ricorda i tanti nomi di intellettuali che si sono fermati a
    dicutere, a scrivere, a vivere qualche ora in questo Caffè: fra i tanti nomi spicca
    quello di Giorgio Voghera (figlio di Guido) che ricordiamo per gli studi sull'ebraismo e
    sulla psicanalisi. Fra i nomi noti Magris accenna anche agli sconosciuti, alle persone di passaggio, ai
    giovani studenti e agli appassionati scacchisti che costituiscono, tutti insieme nella
    loro affascinante molteplicità, la compagnia del Caffè San Marco.
 Se da qui ci si sposta sulle rive, non è difficile trovare seduto ai tavolini del Caffè
    Tommaseo  lo scrittore Fulvio Tomizza.
 |