Selvaggina, un cibo preistorico.

La storia dell'alimentazione umana comincia con la selvaggina.

Al suo apparire sulla terra l'uomo abbandona molto presto il regime vegetariano: frutta, bacche e radici non gli bastano. Caccia gli animali per procurarsi le pelli con cui difendersi dal freddo, ma ne assaggia le carni, le trova di suo gradimento e cerca di procurarsele il più spesso possibile. La selvaggina prediletta del cacciatore preistorico é il cavallo, che vive allo stato selvaggio in branchi numerosissimi. Soltanto più tardi, nell'età del bronzo, l'uomo imparerà a domarlo, a considerarlo per quello che in effetti è, un animale domestico ed utilisissimo. E la carne equina scompare a poco a poco, dalla mensa, sostituita da altri tipi di carne, di animale che l'uomo ha possibilità di trovare numerosi nelle foreste che ricoprono i continenti. Fra questi, la volpe di cui era particolarmente apprezzato il cervello, la lepre considerata però inferiore alla volpe come qualità, il cinghiale, abbondantissimo.

I metodi di cottura sono ovviamente quelli primitivi del semplice arrosto, l'esposizione cioè di un pezzo di carne al calore di una fiamma per un tempo più o meno lungo. Per evitare scottature l'uomo infilza la carne su lunghi rami e nasce lo spiedo. Soltanto più tardi, molto lentamente, si arriverà ad insaporire le carni con particolari erbe odorose e ad accompagnarle con salse. Debbono trascorrere millenni.

Nella Grecia pre-ellenica la caccia é diffusissima. L'uomo ha imparato ad addestrare gli animali alla cattura di altri animali ed impiega a questo scopo i celebri levrieri di Creta e addirittura dei gatti semi-selvaggi, se si deve credere a certi autori. La selvaggina é composta dagli stessi tipi di selvatici dei nostri giorni: lepri, cinghiali, cervi, camosci, anitre, galli cedroni, fagiani, pavoni, pernici, beccacce, quaglie e uccellini minuti.

Erasistrato, il medico alessandrino fondatore dell'anatomia e convinto assertore della teoria secondo cui il sangue é all'origine della vita, serviva ai sui invitati copiosi arrosti accompagnati da una salsa calda a base di sangue, miele, formaggio, cumino e sedano. Sulla stessa linea era del resto anche Archestrato di Siracusa, un paio di secoli prima, quando scriveva che il modo migliore per preparare una lepre é arrostirla appena superficialmente, togliendola dallo spiedo ancora molto al sangue e mangiarla subito "senza far smorfie e senza timore del sangue che gocciola. Ogni altro modo di cucinare la lepre é, a parer mio, completamente assurdo, sia che la si asperga di sostanze vischiose, che la si copra di formaggio o vi si versi sopra troppo olio". Il poeta siracusano, primo gastronomo del mondo antico, ci fornisce così altri tre metodi di preparazione della lepre, il che conferma la diffusione dell'animale sulle tavole greche.

Nella stessa Sparta, sotto l'inflessibile governo di Licurgo, l'obbligo di eguaglianza di tutti i cittadini arrivava fino alla tavola comune per il pranzo, affinchè il cibo fosse lo stesso per tutti. Pranzare in casa propria era rigorosamente proibito. Unica eccezione era consentita per i cacciatori che, al rientro dalle battute, potevano rimanersene in casa a condizione però di consegnare una parte del carniere alla tavola comune.
A Roma, la civiltà della tavola raggiunge, come tutti sanno, livelli forse eccessivi. Sta di fatto che anche qui la selvaggina é fra i grandi protagonisti delle imperiali scorpacciate. La campagna romana é ricchissima di cinghiali (oggi, purtroppo, sono rimasti soltanto quelli della tenuta presidenziale di Castel Porziano) ma i cittadini dell'Urbe, abituati evidentemente troppo bene, considerano scadente e insipida la loro carne. Preferiscono, poverini, i cinghialotti teneri e saporiti delle colline d'Umbria, che si nutrono con le ghiande dei fitti querceti. Però non tutto l'animale é apprezzato: soltanto alcune parti della testa, lingua e cervello in primo luogo, e la lombata. Il resto viene buttato ai servi. Dei pranzi romani ci é arrivata ampia letteratura, da Pretonio a Plinio, a Varrone, a Celso per non citare i più interessanti.
Apprendiamo così il favore di cui godeva la carne di cervo, considerata importante per preservare da una quantità di malanni. Identico discorso vale per il capriolo. Tutta la selvaggina di taglia grossa era comunque apprezzata dai romani: daini, antilopi, gazzelle di Numidia, mufloni di Corsica. E poiché era difficile organizzare ogni volta delle battute per catturarli (e costoso, anche) si erano organizzati in Roma e negli immediati dintorni dei veri e propri allevamenti che provvedevano al quotidiano rifornimento delle mense dei ricchi.
Fra i parchi adibiti a questo scopo erano famosi quello di Fulvio Lepino, a Tarquinia, e in città quelli di Lucullo e di Varrone. Per quanto riguarda invece gli animali di taglia più piccola, troviamo in auge soltanto la lepre. Ma anche in questo caso gli schizzinosi discendenti di Romolo e Remo disdegnavano le lepri nostrane, preferendo quelle si Spagna e Francia, più piccole e probabilmente molto più simili ai conigli selvatici che alla lepre vera e propria come la conosciamo noi oggi. Arrivavano addirittura, mostruosa raffinatezza, a pagare a peso d'oro i cuccioli, estratti dal ventre della madre o sottratti durante il primo allattamento. La selvaggina da penna é un altro capitolo importante nelle abitudini e negli stravizi mangerecci capitolini. Erano conosciuti e apprezzati, più o meno, quasi tutti i volatili grandi e piccoli che compongono ancor oggi, per dirla alla francese, il "gibier de plume": tordi, merli, pernici, quaglie, beccafichi, ortolani, passeracei vari, gallinacei d'ogni sorta, dal fagiano all'urogallo, e via dicendo. I tordi, in particolare, venivano allevati con mille cure in grandi gabbie, alimentati dapprima con lenticchie, miglio e mirto, infine ingrassati con farina e fichi tritati. "Metodo valido ma troppo oneroso" s'é trovato scritto "perché richiede troppo personale, e questo costa caro e mangia la metà dei fichi destinati ai volatili".

Nel Medioevo la caccia diventa uno sport, un divertimento riservato ai regnanti e ai nobili. Lo si pratica con la balestra, le reti, il falcone e più tardi, con l'archibugio. Dal Medioevo al Rinascimento la situazione non cambia sostanzialmente. La caccia é sempre un privilegio dei nobili, ne fanno le spese aironi, cicogne, cigni, fenicotteri, ma si cominciano ad apprezzare sempre di più la delicatezza e il raffinato sapore di pernici, beccacce, beccaccini, fagiani, merli, beccafichi e uccellini in genere. Fra la selvaggina da pelo sono in auge lepre, capriolo, cinchiale, cervo, daino. La cottura é prevelentemente arrosto.

In Francia, con il lento sorgere e consolidarsi di una tradizione gastronomica destinata a fare della cucina francese la più diffusa nel mondo, nascono le prime manipolazioni con salse e aromi particolari che porteranno a quei meravigliosi "patè" ancor oggi vanto della grande cucina internazionale. Scompare con il mutar dei gusti, anche il coniglio selvatico e sono invece ricercati animali come il germano reale e la folaga che, considerati di carne magra, sono ipocritamente utilizzati per affrontare senza eccessive rinunce il castigato periodo di Quaresima. Il beccafico tornerà da trionfatore sulle tavole dei buongustai un paio di secoli più tardi, e vi rimarrà fino ai nostri giorni. E' singolare l'alterna fortuna di questo grazioso e saporitissimo animaletto, talvolta respinto, talaltra adorato. Marziale scrive: "Se la fortuna ti mette a disposizione un beccafico, tenero e grasso, insaporiscilo solo con un po' di pepe". Brillat Savarin lo esalta con un paragone economico: "Se un beccafico fosse grande quanto un fagiano, costerebbe certamente quanto un podere".


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