Per
molti autori della letteratura italiana si può parlare di “visione
pessimista della vita”; analizzando le loro produzioni però, risulta
evidente che non sempre il pessimismo è lo stesso: alle volte cambia
l’oggetto cui è rivolto, altre volte il modo in cui è espresso. Questo
perché gli autori sono stati influenzati da epoche e avvenimenti storici
molto diversi tra loro, quali, ad esempio, la rivoluzione francese, o le due
guerre mondiali. Autori da prendere in considerazione sono: Ugo Foscolo
(1778-1827), Giacomo Leopardi (1798-1837), Giovanni Verga (1840-1922),
Italo Svevo (1861-1928) ed Eugenio Montale (1896-1981).
In
Foscolo si può parlare di negativismo e pessimismo della ragione, una sorta di senso drammatico
della realtà, dell’uomo e della storia, derivatogli in particolare dal
“tradimento” di Napoleone all’Italia. Bonaparte con il Trattato di
Campoformido, 17 ottobre 1797, cedeva Venezia all’Austria. [cfr testo “Il
sacrificio della nostra patria è consumato” dalle “Ultime lettere di
Jacopo Ortis”]. E il suo maggior personaggio, Jacopo Ortis, ne è
l’emblema; esso, per cercare pace e rifugio dalle sofferenze, non trova
altra soluzione se non il suicidio. Nelle opere di Foscolo abbiamo però una
specie d’evoluzione dal radicale pessimismo della sua opera principale, ad
una qualche speranza o accettazione della vita; quest’ultimo aspetto è
evidenziato dall’opera, considerata minore, “Notizia intorno a Didimo
Chierico”. Il protagonista, Didimo Chierico appunto, non si uccide,
ma impara l’arte di vivere tra gli uomini, difendendosi da un mondo che sa
di non poter cambiare. Egli, com’è stato osservato, altri non è che uno
Jacopo sopravvissuto al suicidio e divenuto esperto dell’arte di adattarsi
al mondo. A questo proposito si potrebbe instaurare un collegamento con Zeno Cosini, l’inetto protagonista de “La coscienza di Zeno” di Svevo, che
pur essendo destinato a fallire infine riesce a adattarsi alla vita e
sopravvivere all’alter-ego Guido.
Autore pessimista per eccellenza è senz’altro
Leopardi ma, rispetto al precedente Foscolo, la sua visione negativa
è esemplificata dalla sofferenza. Le sofferenze fisiche e l’aspetto
infelice dell’autore, però, non si può affermare che siano in gran parte
responsabili del suo pessimismo. Infatti, la deformità e la malattia non
rimasero un motivo di lamento individuale, ma divennero un profondo
strumento conoscitivo; egli vi scorgeva, infatti, segno ed esempio di una
decadenza più generale, fisica e necessariamente anche spirituale, rispetto
alla condizione degli antichi. Quest’infelicità non era propria di un
singolo, né era propria dell’uomo moderno, ma apparteneva da sempre alla
specie umana (i critici parlano di pessimismo cosmico). Anche la
Natura non porta felicità all’uomo, al contrario, con la sua indifferenza
essa svela il suo volto più terribile e lascia l’uomo in balia della
sofferenza. Nel “Dialogo della Natura e di un Islandese” (dalle
Operette morali) Leopardi fa incontrare l’islandese, che gira per il mondo
alla ricerca di un luogo in cui cessi il suo continuo dolore, con la natura
stessa. I due personaggi instaurano un dialogo in cui la natura esprime
chiaramente la sua indifferenza (“Quando io vi offendo in qualunque modo e
con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte…E
finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io
non me ne avvedrei.”). Questo pessimismo cosmico tocca un’ulteriore
traguardo con la lirica “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”,
dove non c’è forma o stato nell’universo intero che non sia segnato da una
stessa condizione negativa. In un’altra Operetta morale, “Dialogo della
Natura e di un’anima”, quest’ultima chiede spiegazioni alla Natura circa
il suo destino incomprensibile: dar vita ad
esseri di necessità infelici,
(“[natura]
Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo
ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.[anima] Che male ho
io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena? [natura]
Che pena, figliuola mia? [anima] Non mi prescrivi tu di essere
infelice? [natura] Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e
non si può questo senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un
corpo umano; e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici.
[anima] Ma in contrario saria di ragione che tu provvedessi in modo, che
eglino fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si
converrebbe astenere da porli al mondo. [natura] Né l'una né l'altra
cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina
altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo
intendere…[anima] Madre mia, non ostante l'essere ancora priva delle
altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio
che tu mi hai dato, è quello della felicità… [natura] Figliuola mia;
tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda
all'infelicità, senza mia colpa...). In questo componimento si può scorgere
un’anticipazione della teoria filosofica di Schopenhauer sulla
Volontà di
vivere.
Di altro stampo è il pessimismo di Verga
e di Svevo, questi due autori, uno siculo, l’altro triestino, vengono
influenzati dalle teorie sull’evoluzione della specie, pubblicate da
Charles Darwin nel 1859.
La produzione di Verga, soprattutto “I
Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, è intrisa da rimandi alla
teoria della lotta per la vita, quest’ultima però è vista in
negativo, come lotta che l’uomo non può vincere e come fallimento di ogni
reale cambiamento (significativo in questo senso è l’episodio dei lupini e
il successivo affondamento della Provvidenza ne “I Malavoglia”). A
questo si collega il famoso ideale dell’ostrica, simbolo di una vita
che deve essere vissuta senza mai tentare di cambiarla o migliorarla, per
non rischiare di non essere più accettato dalla vecchia. I n Svevo invece la
lotta per la vita si configura come mito pessimista dell’inetto,
pessimismo scettico circa la possibilità dell'uomo di essere protagonista o
artefice della propria esistenza. Un inetto è colui che non è capace, che
non è adatto, a vivere, ad amare, ad avere dei rapporti efficaci nei
confronti della realtà e quindi si sente diverso dagli altri. Non è che non
abbia doti, anzi ne ha troppe, è più intelligente del necessario, ma questa
intelligenza non è applicativa, non gli serve a modificare se stesso e il
mondo: è un ingegno che lo fa star male invece di renderlo più adatto alla
società. Gli inetti di Svevo non si possono definire dei "vinti" alla
maniera del Verga: questi ultimi sono rigettati indietro dopo aver tentato
di superare il livello della loro classe; per gli inetti, invece,
l’insuccesso è legato al "male di vivere"; essi sono vinti, ma senza
grandezza, perché la malattia della coscienza e l’inettitudine escludono la
lotta. Sembra quasi che la malattia sia una condizione necessaria per
conoscersi meglio, che sia lo stato normale dell’uomo. Alla fine però la
situazione si ribalta, è l’inetto, Zeno, che riesce a sopravvivere e ad
adattarsi alla vita, “sconfiggendo” il forte Guido che, per ironia della
sorte, o dell’autore, volendo far finta di suicidarsi, muore davvero.
Per ultimo il
pessimismo in Montale, autore più vicino ai giorni nostri, che
vive l’orrore delle due guerre mondiali. E’ una visione negativa data
dalla sfiducia in una vita che non può essere controllata, più simile a
Svevo che a Leopardi o Foscolo. Tema fondamentale della sua poesia è
l’insanabile crisi del rapporto fra l’uomo contemporaneo e il reale. Per
Montale si parla di poesia antieloquente e in negativo, senza
certezze da rivelare, che si limita a registrare l’angoscia profonda
del poeta. A immagine di queste considerazioni bisogna citare la poesia
“Non chiederci la parola”, che apre la raccolta “Ossi di
seppia”. Talvolta si intravede una possibilità di salvezza
(“l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci
metta / nel mezzo di una verità” da “I limoni”) ma si risolve
sempre con uno scacco. Anche lo
stile richiama questi temi: le frasi
ipotetiche (in una sintassi complessa e ricca di subordinate) vanno
intese come traduzione linguistica della crisi di conoscenza presente
nel poeta.
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