"Sul mio terrazzo c’è un alberello davvero misero, regalo di qualche Natale da parte di chi non sapeva cosa donarmi. Neppure so che tipo di albero sia. E’ rinsecchito, con poche foglie e pochissima terra, respira insieme con me quest’aria inquinata.
Non so come viva eppure vive.
Mi fa pensare al grande abete sotto cui prendevo il fresco nelle lunghe passeggiate torride che facevo giù a Fabrizia, in Calabria, da casa mia fino al ruscello dove prendevo l’acqua per tutta la famiglia. Mi domando se vive ancora quell’abete, o la città e il cemento se lo sono portato via.
Sotto la sua ampia chioma mi fermavo, stanco e sudato, per riposare. Spesso incontravo il figlio del dottore, il figlio del notaio e la graziosa figlia del calzolaio. Non si conversava molto perché venivamo da due mondi diversi, ma per educazione parlavamo del tempo o di cosa avevamo mangiato a pranzo e dove e con chi. Io, che bugie non ne sapevo dire, più di una volta risposi:
<< Io non ho mangiato.>>
Dopo due o tre volte, la figlia del calzolaio, con dolcezza, mi chiese:
<< Ma tua madre non sa cucinare? Se vuole le insegna la mia mamma a cucinare qualcosina>>.
Povera bambina alla quale nessuno aveva raccontato che in molte famiglie non si mangiava che una volta al giorno, e la carne una volta al mese.
Tanti di quei figli di commercianti e professionisti sono morti di vecchiaia e malattia. Io a novanta anni sono vivo e aggrappato a questa poca terra, come il mio alberello.
Forse è stata la dieta a base d’acqua e pensieri a mantenermi così longevo. O forse è stato l’influsso della Libia. Mi ha tramandato la sua saggezza secolare, la sua forza senza confini.
Ho vissuto ad Ain-Zara moltissimi anni. Ero maestro di una scuola elementare. Insieme all’italiano si studiava l’arabo. Nei giorni di vento chiudevamo le finestre e guardavamo, al sicuro, il ghibli che spazzava le strade e portava lontano i vestiti di chi, nelle case o nelle zaribe, aveva dimenticato i panni stesi.
Il muezzin chiamava dal minareto in coincidenza con la fine delle lezioni. Se il bidello si dimenticava di suonare la campana, i bambini sentivano la preghiera straniera e dicevano: << Maestro, è ora di andare>>.
Il sabato portavo i ragazzi in gita nel deserto, tra le oasi di alte palme e le dune vagabonde. Bastava un soffio di vento per portarsele via, il deserto era vivo! E la notte un cielo limpido lo sovrastava, con miriadi di stelle che ammiccavano come luminosi occhi di donna.
Dormivamo sicuri nelle nostre case, senza chiudere la porta col chiavistello. Quella gente, seppur orba del Cristian Vangelo, accoglieva lo straniero con etica da buon samaritano.
Ora sono qui, nella Città Civile. Roma, Caput Mundi. Dove le persone appena rientrate dal lavoro si chiudono dentro, allarme e grate alla finestra, spaventate dalle notizie di questo mondo morente.
Straniero non è un aggettivo ma un insulto. L’Islam da religione è diventato minaccia.
Le nere, senza burqa, scoprono tette e culo sotto il giogo di qualche viscido pappone. Magrebini e slavi vivono nelle baracche e lavorano nei cantieri per costruirci un rifugio di pareti fredde e indifferenti. Maledicono spesso coloro che gli prospettarono una Terra Promessa, il Paese dei Balocchi. La gente è nuova ma la storia è vecchia.
In città c’è più paura adesso che ai tempi della Guerra. Lì il terrore aveva una divisa. Qui la morte striscia tra le macchine ferme al semaforo, dentro le camere da letto, fuori dai locali notturni. Insegna dentro le scuole, si fa largo tra la folla in metropolitana, ti assale a tradimento nelle stanze di ospedale. Non ci sono luoghi protetti, per una guerra così.
Seppur italiano, rimpiango quella “mia” terra africana. Lontana nello spazio e nel tempo. In Libia non ho mai potuto fare ritorno, come non può tornare il tempo felice di quella giovinezza. Quando, uccisi i Grandi Dittatori, sembrava che ogni problema fosse risolto. La diffusione della radio e  l’avvento della televisione avrebbero avvicinato luoghi lontani. Le luci al neon, il cibo nei negozi, che gran festa ci aspettava! Nessuno più sarebbe stato costretto ad emigrare, come avevano fatto i miei fratelli che dalla Calabria erano sbarcati in America, in cerca di fortuna. Con tutti i soldi che dovevano arrivare, tutti avremmo avuto una casa e una vita agiata. Dopo la Guerra Mondiale doveva per forza subentrare la Pace Mondiale!  Potevo forse deporre la lancia e riposarmi.
Pensateci voi a questo mondo, adesso, che io sono un po’ stanco! Signor Dio e Signor Progresso, venite avanti, che c’è posto. Lascio tutto a voi, non deludetemi, eh?
Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo tutti. Lancillotto non poteva riposare ed ha fatto il suo dovere fino a ridursi così, è magro e vecchio come Don Chisciotte, giacché battaglie ne ha fatte tante. C’era (e c’è ancora) molto da cambiare, tanta burocrazia contro cui scontrarsi, tante ingiustizie da denunciare, tanti sogni da difendere. Potrei scrivere un libro degno del Cervantes, ma senza conoscenze dubito che qualcuno lo pubblicherebbe! A  novanta anni devo rassegnarmi che il Mondo va così come va.
Gli anni e i giorni sono passati veloci, depositati sul cuore come foglie secche d’Autunno. Una dopo l’altra fino a formare un tappeto giallo dove camminano i miei pensieri e non fanno rumore. Si avviano al traguardo, al gelido Inverno che mi darà finalmente pace e quel giorno lascerò che il mondo se la cavi senza di me!

 

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