| 
    
     Tratto da Guido Gozzano, 
    Poesie, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1997, pp. 181-187. 
    (...) 
    III 
    Sei quasi brutta, priva di 
    lusinga 
    nelle tue vesti quasi campagnole, 
    ma la tua faccia buona e casalinga,           75 
    ma i bei capelli di color di sole, 
    attorti in minutissime trecciuole,  
    ti fanno un tipo di beltà fiamminga... 
    E rivedo la tua bocca 
    vermiglia  
    cosi larga nel ridere e nel bere,                 
    80 
    e il volto quadro, senza sopracciglia, 
    tutto sparso d’efelidi leggiere  
    e gli occhi fermio l’iridi sincere  
    azzurre d’un azzurro di stoviglia... 
    Tu m’hai amato. Nei begli 
    occhi fermi         85  
    rideva una blandizie femminina.  
    Tu civettavi con sottili schermi,  
    tu volevi piacermi, Signorina: 
    e più d’ogni conquista cittadina  
    mi lusingò quel tuo voler piacermi!             90 
    Ogni giorno salivo alla tua 
    volta  
    pel soleggiato ripido sentiero.  
    Il farmacista non pensò davvero  
    un’amicizia cosi bene accolta,  
    quando ti presentò la prima volta              95 
    l’ignoto villeggiante forestiero. 
    Talora - già la mensa era 
    imbandita – 
    mi trattenevi a cena. Era una cena  
    d’altri tempi, col gatto e la falena  
    e la stoviglia semplice e fiorita                100 
    e il commento dei cibi e Maddalena  
    decrepita, e la siesta e la partita... 
    Per la partita, verso ventun’ore 
    giungeva tutto l’inclito collegio 
    politico locale: il molto Regio                   
    105 
    Notaio, il signor Sindaco, il Dottore; 
    ma - poiché trasognato giocatore – 
    quei signori m’avevano in dispregio... 
    M’era più dolce starmene in
    cucina 
    tra le stoviglie a vividi colori:                  
    110 
    tu tacevi, tacevo. Signorina: 
    godevo quel silenzio e quegli odori 
    tanto tanto per me consolatori,  
    di basilico d’aglio di cedrina... 
    Maddalena con sordo 
    brontolio                115 
    disponeva gli arredi ben detersi,  
    rigovernava lentamente ed io,  
    già smarrito nei sogni più diversi,  
    accordavo le sillabe dei versi  
    sul ritmo eguale dell’acciotolio.                
    120 
    Sotto l’immensa cappa del 
    camino  
    (in me rivive l’anima d’un cuoco forse...)  
    godevo il sibilo del fuoco; 
    la canzone d’un grillo canterino 
    mi diceva parole, a poco a poco,             
    125 
    e vedevo Pinocchio e il mio destino... 
    Vedevo questa vita che 
    m’avanza: 
    chiudevo gli occhi nei presagi grevi; 
    aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,  
    ed ecco rifioriva la speranza!                  
    130 
    Giungevano le risa, i motti brevi  
    dei giocatori, da quell’altra stanza. 
    IV 
    Bellezza riposata dei solai
     
    dove il rifiuto secolare dorme!  
    In quella tomba, tra le vane forme           135 
    di ciò ch’è stato e non sarà più mai, 
    bianca bella così che sussultai,  
    la Dama apparve nella tela enorme: 
    « È quella che lasciò, per 
    infortuni,  
    la casa al nonno di mio nonno... E noi       140  
    la confinammo nel solaio, poi  
    che porta pena...L’han veduta alcuni  
    lasciare il quadro; in certi noviluni  
    s’ode il suo passo lungo i corridoi... » 
    II nostro passo diffondeva 
    l’eco              145 
    tra quei rottami del passato vano, 
    e la Marchesa dal profilo greco,  
    altocinta, un piede ignudo in mano, 
    si riposava all’ombra d’uno speco  
    arcade, sotto un bel cielo pagano.          150 
    Intorno a quella che rideva 
    illusa  
    nel ricco peplo, e che morì di fame,  
    v’era una stirpe logora e confusa: 
    topaie, materassi, vasellame,  
    lucerne, ceste, mobili: ciarpame              
    155 
    reietto, così caro alla mia Musa! 
    Tra i materassi logori e le 
    ceste  
    v’erano stampe di persone egregie; 
    incoronato delle frondi regie 
    v’era Torquato nei giardini d’Este.           
    160  
    « Avvocato, perché su quelle teste  
    buffe si vede un ramo di ciliegie? » 
    Io risi, tanto che fermammo il 
    passo, 
    e ridendo pensai questo pensiero: 
    Oimè! La Gloria! un corridoio basso,         165 
    tre ceste, un camerano dell’Impero, 
    la brutta effigie incorniciata in nero  
    e sotto il nome di Torquato Tasso! 
    Allora, quasi a voce che 
    richiama, 
    esplorai la pianura autunnale                  
    170 
    dall’abbaino secentista, ovale, 
    a telaietti fitti, ove la trama  
    del vetro deformava il panorama 
    come un antico smalto innaturale. 
    Non vero (e bello) come in uno 
    smalto     175 
    a zone quadre, apparve il Canavese: 
    Ivrea turrita, i colli di Montalto,  
    la Serra dritta, gli alberi, le chiese; 
    e il mio sogno di pace si protese  
    da quel rifugio luminoso ed alto.             180 
    Ecco - pensavo - questa è 
    l’Amarena, 
    ma laggiù, oltre i colli dilettosi, 
    c’è il Mondo: quella cosa tutta piena 
    di lotte e di commerci turbinosi, 
    la cosa tutta piena di quei « cosi            185 
    con due gambe » che fanno tanta pena... 
    L’Eguagliatrice numera le 
    fosse,  
    ma quelli vanno, spinti da chimere  
    vane, divisi e suddivisi a schiere  
    opposte, intesi all’odio e alle percosse:    190
     
    così come ci son formiche rosse, 
    così come ci son formiche nere... 
    Schierati al sole o all’ombra 
    della Croce, 
    tutti travolge il turbine dell’oro; 
    o Musa - oimè! - che può giovare loro     195 
    il ritmo della mia piccola voce?  
    Meglio fuggire dalla guerra atroce  
    del piacere, dell’oro, dell’alloro... 
    L’alloro... Oh! Bimbo semplice
    che fui, 
    dal cuore in mano e dalla fronte alta!      200 
    Oggi l’alloro è premio di colui (1) 
    che tra clangor di buccine s’esalta, 
    che sale cerretano (2) alla ribalta 
    per far di sé favoleggiar altrui... 
    (...) 
     
    
      (1) Riferimento 
      polemico a D’Annunzio.  
    
      (2) Imbroglione, 
      ciarlatano.  
     |