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 I colori,  
dall'impressionismo a Wassili Kandinsky 
    
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		I colori, fin dall’antichità, hanno avuto 
		un ruolo fondamentale nell’arte, ma anche nella vita comune delle 
		persone. Differenti colori indicavano diverse classi sociali e quindi 
		diversi patrimoni; per esempio il rosso porpora, raro e costoso, divenne 
		simbolo di regalità, di potere e quindi di ricchezza. Anche nelle opere 
		pittoriche i colori assumono un ruolo fondamentale, introducendo lo 
		spettatore nel mondo e nello stile dell'artista. Infatti, in tutti i 
		periodi, artistici e storici, il colore ha permesso ai vari geni di 
		esprimersi al meglio, soprattutto dopo il periodo impressionista. 
		Decisiva in questo senso è stata la “Teoria dei contrasti simultanei”, 
		elaborata da Eugene Chevreul (1786 – 1889). Il chimico francese affermò 
		che i colori locali (cioè i colori puri) non esistono, poiché ognuno è, 
		immancabilmente, influenzato dai colori vicini. Inoltre egli li distinse 
		in “primari” (rosso, blu e giallo) e “secondari” (arancione, verde e 
		viola).
		Gli impressionisti e i 
		post-impressionisti si servirono di queste teorie per armonizzare le 
		loro composizioni. L’intento dei primi è proprio evitare, per quanto sia 
		possibile, la perdita di luce riflessa, causata dalla mescolanza e dalla 
		sovrapposizione dei colori, così da dare alle loro tele la stessa 
		intensità visiva che si ottiene da una percezione diretta della realtà. 
		Per far ciò adottano le seguenti tecniche: utilizzano solo colori puri; 
		non li diluiscono per realizzare il chiaro-scuro, che nelle loro tele è 
		del tutto assente; accostano colori complementari per esaltare la 
		sensazione luminosa; non usano mai il nero e infine colorano anche le 
		ombre. Queste ultime, negazione del chiaro-scuro opaco della pratica 
		accademica, sono particolarmente studiate da Monet, Sisley e Pissarro 
		nei paesaggi innevati. 
		  
		
		L'idea che il nero non sia un colore e che 
		non vada usato per scurire, è stata introdotta dagli impressionisti e si 
		è diffusa nel tempo. Ma è falsa, se presa in senso assoluto. È vero che 
		il nero non è uno scuritore generale, e che tende a virare i colori che 
		si vogliono scurire, ma non si può abolirlo dalla tavolozza. A questo 
		proposito così scriveva Van Gogh: "Il bianco ed il nero hanno un loro 
		significato, una loro motivazione e quando si cerca di eliminarli, il 
		risultato è un errore: la cosa più logica è di considerarli come dei 
		neutri: il bianco come la più luminosa unione dei rossi, azzurri, gialli 
		più chiari, e il nero, come la più luminosa combinazione dei più scuri 
		rossi, azzurri e gialli." 
		Chi, tra gli 
		impressionisti, si discosta da questo “ostracismo” del nero, è 
		certamente il francese Édouard Manet (1832 – 1883). 
		
		Manet 
		studia l'arte del passato, al Louvre ammira Tiziano ("Concerto 
		campestre", "La venere di Urbino") e gli spagnoli Velazquez e Goya, mentre nelle sue famose opere del 1863, 
		“Colazione 
		sull'erba” e “Olympia" presenta una pittura del tutto nuova, pur nel 
		rispetto della composizione classica. Caratteri essenziali sono il 
		progressivo annullamento di chiaro-scuro e mezze tinte, i forti 
		contrasti di toni chiari accostati a toni scuri e le larghe e piatte 
		campiture di colore utilizzate per definire le figure. Sullo sfondo di 
		“Colazione sull'erba” la vegetazione è descritta con pennellate veloci e 
		libere, che rendono la trasparenza dell'atmosfera. Egli giunge al 
		culmine della pittura impressionista vera e propria con il “Bar alle 
		Folies Bergère” del 1882 . 
		Si tratta dell’ultimo quadro importante del pittore, da sempre 
		considerato il suo testamento, testimone dell’evoluzione e dell’estrema 
		coerenza interna del suo percorso artistico. Nel dipinto si ritrovano, 
		infatti, molte componenti caratteristiche di tutto l’arco creativo di Manet: l’ambientazione parigina, una composizione calibrata, l’uso del 
		nero, una straordinaria natura morta. Nella figura della giovane barista 
		troviamo nuovamente la contrapposizione tra la candida pelle e la giacca 
		nera (già presente nei suoi quadri precedenti), mentre dal suo viso 
		emerge la semplificata psicologia dei volti di Velazquez. 
		Manet gioca ancora 
		una volta sulla posizione dell’osservatore all’interno dello spazio 
		dipinto, ma intreccia questa volta un dialogo particolarmente sottile 
		tra chi guarda e chi viene guardato. Così il rapporto spaziale si 
		complica imprevedibilmente e il cliente in cilindro al quale la 
		cameriera si rivolge senza vederlo, coincide con l’osservatore stesso. 
		Come già avveniva nel capolavoro del venerato Velàzquez, 
		“Las meninas” 
		(1656-57; Museo del Prado, Madrid), la realtà non 
		è quella che appare: l’atteggiamento che pare sollecito, guardando la 
		ragazza di schiena, è in verità assente.  
		Vicino all’esperienza 
		dell’Impressionismo vi è il Pointillisme (Puntinismo) di Seurat e 
		Signac, che porta alle estreme e scientifiche conseguenze la 
		giustapposizione dei colori impressionisti. Esso adotta il principio 
		rigoroso della scomposizione del colore in elementi separati e 
		complementari, che vengono ricongiunti dall’occhio dell’osservatore 
		nella percezione in una sintesi non manipolata preventivamente 
		dall’artista. La tecnica pittorica del puntinismo è intesa ad ottenere 
		la massima luminosità attraverso l'accostamento di colori complementari, 
		le pennellate vengono ordinate sulla tela in piccoli tocchi regolari di 
		colore puro, mentre è lasciato all'occhio dell'osservatore il compito di 
		operare la sintesi finale. Bisogna ricordare, per l’uso simbolico del 
		colore e quindi per l’antinaturalismo cromatico, anche il francese Paul Gauguin (1848 – 1903), e naturalmente 
		Vincent Van Gogh 
		(1853 – 1890). Come Gauguin, anche Van Gogh usa la linea non come mezzo 
		descrittivo ma con funzione espressiva e trasforma volutamente il colore 
		reale per renderlo “suggestivo”. Un esempio di questa tecnica è “Campo 
		di grano con corvi”
		
		 (1890; 
		olio su tela; Amsterdam, Rijksmuseum Vincent Van Gogh), una delle sue 
		ultime tele. I colori sono violenti, senza mezze tinte, essenziali: i 
		tre primari (il blu del cielo vorticoso, il giallo del grano, il rosso 
		delle strade che si allontanano velocemente) e uno secondario (il verde 
		dell’erba che serpeggia lungo i sentieri); qua e là svolazzano i corvi, 
		linee nere zigzaganti, presenze minacciose. Un conoscente dei tempi di 
		Etten ricordò che Van Gogh “disegnava sempre corvi che lottano contro 
		il temporale”. 
		Ultimo, in ordine di tempo, è Wassili Kandinsky (1866 – 1944), 
		esponente di spicco dell’astrattismo (corrente pittorica che abolisce 
		completamente gli oggetti reali, visualizzando con forme, linee e colori 
		i sentimenti, ed agendo sull’inconscio dello spettatore come il 
		musicista agisce sull’inconscio dell’ascoltatore mediante il rapporto 
		reciproco delle note). Il suo puro geometrismo del disegno (cerchio e, 
		subordinatamente, triangolo), si completa con il colore che, disteso in 
		campiture, conserva e intensifica di per se stesso e mediante 
		sovrapposizioni o accostamenti calcolatissimi, il magico potere 
		suggestivo attribuitoli fin dall’epoca del simbolismo . 
		Molto originale è la teoria elaborata da Kandinsky, nel suo libro “Lo 
		spirituale nell'arte”, dove l'artista cerca di elaborare un parallelismo 
		tra la musica e il colore. Egli afferma che ogni colore si caratterizza 
		per la sua "sonorità cromatica" e per la sua "risonanza". Quest’ultima è 
		strettamente legata alla distanza del colore preso in esame, dai due 
		"non colori", ossia il bianco e il nero (un colore risuona di più se è 
		vicino al bianco e viceversa, di meno, se è vicino al nero), ma anche 
		alla forma che contiene il colore. Quindi l'effetto di risonanza è 
		sottolineato da una determinata forma oppure attenuato da un'altra: i 
		colori "acuti" hanno maggiore risonanza cromatica se contenuti in forme 
		appuntite, mentre i colori "profondi" prediligono quelle tondeggianti.
		"Dinamismo 
		di un cane al guinzaglio" Giacomo Balla  
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