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     Una 
    modalità di relazione (vecchiaia sinonimo di incompetenza sociale) 
    Ho accennato più volte al rischio che si corre di generalizzare parlando di 
    anziani. Anche Mary Marshall mette in guardia gli operatori sociali riguardo 
    la “trappola della generalizzazione”, come la definisce; c’è infatti “una 
    sottile linea che divide il vedere ogni singola persona nella sua unicità e 
    vederla invece come un membro di un gruppo che ha dei problemi in comune” . 
    Questo aspetto è strettamente legato al complesso argomento del pregiudizio 
    e dello stereotipo nei confronti degli anziani. Bruno M. Mazzara nel volume 
    “Stereotipi e pregiudizi” riassume le diverse impostazioni, teoriche e 
    interpretative, che le scienze sociali hanno elaborato del fenomeno che può 
    essere all’origine di comportamenti discriminatori negativi verso specifici 
    gruppi sociali . Etimologicamente il pregiudizio è un giudizio precedente 
    all’esperienza. Al pensiero scientifico moderno che individuava nel 
    pregiudizio errori di valutazione che impediscono una conoscenza corretta 
    della realtà, le scienze sociali aggiungono due ulteriori specificazioni: il 
    pregiudizio si riferisce a specifici gruppi sociali più che a fatti o a 
    eventi; tale pregiudizio è solitamente sfavorevole, cioè penalizza l’oggetto 
    del giudizio stesso. Si intende quindi per pregiudizio “la tendenza a 
    considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che 
    appartengono ad un determinato gruppo sociale” . Inoltre, per completare la 
    definizione, esso è in grado di “orientare concretamente l’azione” nei 
    confronti di tale gruppo. Gli stereotipi sono invece delle immagini mentali 
    che “hanno la caratteristica di essere delle semplificazioni spesso 
    grossolane e quasi sempre molto rigide”. Gli stereotipi fanno parte della 
    cultura del gruppo e come tali vengono acquisiti dai singoli e utilizzati 
    per una efficace comprensione della realtà. In questo senso essi 
    costituiscono “il nucleo cognitivo del pregiudizio”. L’autore individua le 
    caratteristiche dello stereotipo in alcune variabili quali “il grado di 
    condivisione sociale”, cioè la misura in cui una certa immagine è condivisa 
    da un gruppo sociale, tanto da integrarsi in una cultura comune. La seconda 
    variabile è “il livello di generalizzazione”, ossia quanto si ritiene il 
    gruppo omogeneo rispetto alla caratteristica attribuitagli. L’ultima 
    variabile è individuata nella “rigidità” dello stereotipo, ovvero quanto 
    questo sia ancorato nella cultura. Dal grado di rigidità dipende la 
    possibilità o meno del cambiamento dell’immagine stessa . Per quanto 
    riguarda in particolare lo stereotipo nei confronti dell’età anziana, 
    l’autore riconosce che tra gli stereotipi associati all’età quest’ultimo è 
    complessivamente negativo, tanto da racchiudere gli anziani in “un gruppo 
    sottoprivilegiato”, in quanto “comprende una serie di tratti considerati in 
    antitesi con l’orientamento al successo che caratterizza la nostra società”. 
    Agli anziani generalmente vengono attribuite quali disposizioni psicologiche 
    una certa rigidità mentale, un orientamento al passato e una mancanza di 
    progettualità per il futuro, una chiusura al cambiamento e all’innovazione, 
    mentre come tratti comportamentali vengono sottolineati l’ostinazione, la 
    suscettibilità, una scarsa adattabilità, una certa tendenza al vittimismo, 
    all’ira e ad una eccessiva richiesta di assistenza . In definitiva gli 
    anziani sono considerati socialmente incompetenti e questo è l’elemento 
    fondamentale dello stereotipo sulla vecchiaia che porta inevitabilmente alla 
    discriminazione, cioè al comportamento guidato dal pregiudizio. Questo 
    stereotipo è rigido, profondamente radicato nella cultura; non sono infatti 
    sufficienti a scalzarlo gli innumerevoli esempi di anziani che con la loro 
    condotta di vita dimostrano caratteristiche contrarie a quelle elencate poc’anzi. 
    In proposito Mary Marshall identifica nel pregiudizio contro gli anziani (ageism) 
    un atteggiamento diffuso nella società, che bisogna prendere in seria 
    considerazione e riconoscere, poiché costituisce un pericolo tanto per gli 
    anziani, i quali tendono ad adattarvisi interiorizzandolo, quanto per gli 
    operatori sociali, che rischiano di sottostimare il valore del loro lavoro, 
    riducendo così le capacità di intervento . La differenza individuata 
    dall’autrice rispetto agli altri pregiudizi diffusi nella nostra società è 
    che, mentre ci è preclusa per esempio l’esperienza di appartenere ad 
    un’altra razza, con buona probabilità raggiungeremo l’età anziana, quindi 
    l’esperienza della vecchiaia prima o poi ci apparterrà; nonostante ciò 
    fingiamo che tale condizione non ci riguardi! Marshall quindi analizza 
    brevemente il processo di acquisizione di questi atteggiamenti negativi, che 
    può iniziare fin dall’infanzia o manifestarsi in età adulta. Da ciò si 
    deduce che l’elaborazione dell’immagine che ognuno di noi ha della vecchiaia 
    dipende strettamente dalle esperienze di vita che facciamo, dagli anziani 
    che abbiamo incontrato e dalla qualità del rapporto che con loro abbiamo 
    intrecciato. Molto spesso, ma non necessariamente, questi anziani sono stati 
    i nonni della nostra infanzia e saranno i genitori durante la nostra vita 
    adulta. Per il fatto che queste esperienze contribuiscono a dare forma 
    all’idea che inconsciamente elaboriamo e poi tendiamo a generalizzare a 
    tutti gli anziani, Marshall consiglia di lasciare affiorare in noi i 
    ricordi, di parlarne con qualcuno disponibile all’ascolto, per portare alla 
    piena coscienza queste idee che stanno alla base dei nostri atteggiamenti e 
    comportamenti nei confronti degli anziani . 
    Ritengo importante sottolineare il carattere culturale dello stereotipo, 
    sempre negativo, sugli anziani per due ragioni. Anzitutto perché, come la 
    cultura, esso ha radici profonde: non bastano alcuni esempi o una 
    riflessione ben congeniata a scalzarlo, nel caso si convenisse che questa 
    sarebbe la soluzione per valorizzare gli anziani nelle nostre comunità. In 
    secondo luogo perché nessuno è preservato dall’avere un contatto personale 
    con gli anziani, se non altro quelli che incontriamo alla posta, nei negozi, 
    ai giardini pubblici. Questo significa che una riflessione e una presa di 
    coscienza sulla nostra personale immagine degli anziani è auspicabile per 
    tutti, non solo come Marshall propone, per i professionisti dell’intervento 
    in favore degli anziani. Sicuramente infine anche questo aspetto diviene un 
    punto di forza per l’intervento educativo rivolto alla comunità sociale nel 
    suo complesso. 
    In particolare a raccogliere l’appello della Marshall ben si presta il 
    metodo autobiografico, e più in generale i metodi narrativi, infatti essi da 
    una parte danno l’opportunità a chi racconta di far emergere significati 
    elaborati e mai esplicitati, che stanno alla base del nostro pensare e del 
    nostro agire, in questo caso nei confronti degli anziani; dall’altra 
    ritornano utili anche a chi ascolta, in quanto anche l’ascoltare una storia 
    narrata da un altro stimola inevitabilmente una riflessione personale, porta 
    cioè alla coscienza aspetti nuovi, sotto una luce forse mai vista prima. È 
    questa la caratteristica di duplicità del metodo autobiografico messa in 
    evidenza da Duccio Demetrio , tanto che egli può dire che “ogni biografia 
    -ascoltata o letta- è sempre anche un’autobiografia”. Nell’adottare questi 
    metodi c’è sempre un cammino di autoformazione in itinere. 
    L’anziano lavoratore: l’origine della discriminazione in base all’età 
    William Graebner elabora un’analisi delle origini della discriminazione in 
    base all’età, intendendo con questo termine “gli orientamenti e le linee di 
    condotta che gradualmente hanno ridefinito la posizione delle persone di 
    mezza età ed anziane nella forza-lavoro” . Egli parla dell’atteggiamento 
    ostile nei confronti degli anziani come di una vera “ideologia dell’ageism”, 
    che ha imposto un’immagine del lavoratore anziano con connotazioni 
    fortemente negative. La discriminazione in base all’età ebbe origine e fu 
    alimentata da un’economia capitalistica fortemente competitiva, quale quella 
    che andava sviluppandosi alla fine del XIX secolo. La spinta competitiva fu 
    esacerbata anche dalla crescente popolarità dell’accorciamento della 
    giornata lavorativa. Si puntava ad ottenere una maggiore produttività in 
    minor tempo da ogni singolo lavoratore, cosa che penalizzava i ritmi più 
    lenti dei lavoratori anziani rispetto a quelli giovani. “Economisti e medici 
    elaborarono un’ideologia che rinforzava e razionalizzava questa 
    discriminazione e i tecnici di direzione aziendale la misero in atto nelle 
    fabbriche, nei negozi e negli uffici” . Un ulteriore elemento che sfavoriva 
    i lavoratori anziani era l’insistente progresso della tecnologia, che 
    portava a cambiamenti continui. Nei decenni successivi al 1915 la 
    discriminazione dei lavoratori in base all’età subì un timido cambiamento, 
    poiché ci si accorse che i lavoratori anziani erano più affidabili per 
    quanto riguarda stabilità e conservatorismo; di conseguenza vennero presi 
    nuovamente in considerazione da una minoranza imprenditoriale per combattere 
    il selvaggio turn-over che caratterizzava le aziende di quel periodo. 
    Accadeva che i lavoratori con anni di esperienza dimostrassero un forte 
    attaccamento all’impresa, ai suoi valori e alle sue tradizioni, oltre che 
    un’approfondita conoscenza delle tecniche del mestiere, patrimonio che 
    riuscivano a trasmettere agli apprendisti, lavorandoci fianco a fianco. 
    Questa ripresa però non fu sufficiente a dissolvere i radicati pregiudizi 
    sulle capacità e potenzialità lavorative degli anziani. La maggior parte 
    degli imprenditori continuò a preferire i lavoratori giovani a quelli 
    anziani. La scienza e in particolare la medicina di fine secolo con gli 
    studi sul lavoro e sulla fatica avvalorò tali pregiudizi, contribuendo al 
    rafforzamento della discriminazione in base all’età, che portava le aziende 
    a fissare dei limiti precisi per l’assunzione del personale e il suo 
    allontanamento dal posto di lavoro. La discriminazione in base all’età 
    infine fu sostenuta dal culto della giovinezza proprio del XX secolo. 
    Secondo le spiegazioni dello storico Gilman Ostrander, le società 
    occidentali, specialmente quella americana, guardavano nei primi decenni del 
    ‘900 ai giovani come guida, ripudiando tutto ciò che sapeva di tradizionale. 
    “Sembra possibile però che il culto della giovinezza degli anni Venti non 
    sia stato tanto il riconoscimento di un nuovo ordine, quanto una fase di una 
    crisi a lungo termine nella cultura occidentale ed americana. Al centro 
    della versione americana c’era il timore che la cultura fosse ai suoi 
    spasimi di senescenza” . In quest’ottica l’autore dimostra come l’istituto 
    del pensionamento sia stato creato nel contesto della cultura capitalistica, 
    come mezzo per eliminare i lavoratori anziani a favore di mano d’opera più 
    fresca, giovane e disponibile ad essere plasmata secondo gli interessi degli 
    imprenditori, inoltre quale antidoto alla disoccupazione, che pesava 
    fortemente sull’economia in genere negli anni della depressione. 
    Tutto questo suscita in me una riflessione di ordine più generale, che mi 
    permette di aprire una prospettiva nuova nella valutazione dell’immagine 
    degli anziani. Scorgo quasi un’incompatibilità tra la società produttiva, 
    improntata a efficienza e velocità, e la vecchiaia, caratterizzata dal 
    rallentamento dei ritmi psicofisici. Viviamo nella società di Internet, in 
    cui ciò che è importante è ridurre le distanze e i tempi di trasferimento, 
    considerati tempi morti, tempi inutili. All’opposto di questa tendenza 
    troviamo l’anziano e il suo agire, il suo muoversi, il suo ragionare: tutte 
    facoltà rallentate! L’anziano ha bisogno di più tempo per muoversi 
    fisicamente, ma anche per ragionare, per riflettere. 
    È stato invece dimostrato che non è vero che l’anziano non ci arriva, non 
    può capire, ha la mente arrugginita, perché le capacità cognitive in un 
    anziano sono rallentate, giammai annientate. Questo è un discorso che, con 
    le dovute proporzioni, si applica anche agli anziani affetti da demenza 
    senile. L’anziano ha bisogno di più tempo. Definirei questa problematica 
    un’incompatibilità di ritmi tra l’anziano e il mondo produttivo. Secondo me 
    questa incompatibilità è una componente, se non addirittura il nucleo 
    originario dello stereotipo che diventa pregiudizio di incompetenza sociale 
    attribuito agli anziani. Un approfondimento personale di queste riflessioni 
    porterebbe forse a vedere gli anziani con altri occhi, a fare l’esperienza 
    che a volte basta fermarsi un po’, concedere un po’ di tempo in più, per 
    instaurare una relazione soddisfacente per entrambe le parti coinvolte, una 
    relazione produttiva, interessante, arricchente. Mi rendo conto che questo 
    discorso corre il forte rischio di ridursi in un consiglio moralistico, 
    applicabile solo alla sfera del privato, nel contenitore “tempo libero”. 
    Questo sminuisce certamente la portata della riflessione, che in fondo 
    coinvolge l’impostazione generale della vita di una comunità nel suo 
    complesso, ma anche di ciascuno di noi in particolare. 
     
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